
Dunque, ipotizziamo che in una bella domenica mattina di sole milanese ci si svegli, come raramente capita, con l’idea ben chiara in testa di sapere cosa voler mangiare: giapponese per oggi…grazie!
La nostra avventura comincia sul divano di casa quando, intenti a ricercare recensioni di ristoranti suddetti, ci imbattiamo in questo nuovo ristorante “IYO Aalto”. Sembra molto interessante, facile da raggiungere, elegante, ottime recensioni…ci basta, andiamo!
In realtà durante il tragitto quelle immagini di atmosfere nipponiche ci sono rimaste impresse, così gongolando scopriamo che IYO Aalto si trova in Piazza Alvar Aalto, è stato progettato da Maurizio Lai ed è la seconda insegna del gruppo dopo IYO Taste Experience, unico ristorante giapponese premiato con una stella Michelin in Italia.

Raggiunto il luogo, lasciamo fuori una realtà ed entriamo attraverso una bussola in vetro e specchi fumé, in uno spazio di 320 mq di alchimie materiche, che muovono in maniera bilanciata tradizione e contemporaneità in una restituzione visiva quasi surreale, un gioco di volumi puri intrecciati con sottili riferimenti alla tradizione del Sol Levante.
All’interno, un’installazione luminosa affianca il desk in porfido grigio-verde fiammato e ottone dalla forma organica.
Quello che più colpisce è proprio questo dipolo tradizione-contemporaneità perfettamente studiato per incastrarsi senza stridere, un continuo uso di materiali naturali e nobili come legno di noce, porfido, ottone, pelle accostati ad elementi tecnologici.
I dettagli sono studiati come segni continui, visibili come intarsi in ottone in tutte le superfici con forme differenti.
A fare da guida sono le pareti, setti che non chiudono mai gli spazi, li caratterizzano, li circoscrivono, ma non sono mai continue; è una poetica dei pieni e dei vuoti con l’assenza che ricalibra la spazialità, dando la percezione di ogni singolo dettaglio.
Tre tipologie di parete scandiscono elementi spaziali differenti:
- il massiccio corpo centrale del ristorante in lastre di porfido scandito da tagli vuoti;

- la parete d’ingresso della sala Sushi Banco realizzata con Brise Soleil in noce canaletto;

- la grande “parete” vetrata che incornicia la vista sul Bosco Verticale e la Biblioteca degli Alberi, così come la bussola d’ingresso intermedia l’accesso e la linea sottile tra interno e esterno, tema molto caro all’architettura giapponese.

Tutti gli arredi sono accuratamente disegnati su misura dall’architetto Lai per dialogare con un linguaggio fortemente identitario, e prodotti da Poliform Contract.

La cantina a parete di 10 metri, può ospitare fino a 1600 bottiglie, è costituita da ante in vetro fumé riflettente che riprende il rivestimento del soffitto e crea un meraviglioso gioco di luci suggestive all’interno; abbraccia la cucina, anch’essa in acciaio inox lucido, completamente aperta sullo spazio.
I bagni aprono lo sguardo su un ambiente quasi futuristico, il pavimento in granigliasi riflette sulle superfici specchiate a tutta altezza, alternate a lastre di vetro retro laccato che giocano con contrasti di lame luminose verticali e orizzontali.

Percorrendo questo spazio, ci si sente un po’ dentro una narrazione, la linea di sottile connessione che viene in mente è “Libro d’ombra”, saggio di Tanizaki sull’essenza della estetica tradizionale giapponese.
“Con il suo stile leggero ed elegante, ci prende letteralmente per mano e ci accompagna per le strade, nelle dimore, nei luoghi dell’antico Giappone alla scoperta della sua autenticità che vive nella magia dell’ombra.
Un viaggio indimenticabile che coinvolge tutti i sensi, non solo la vista, il senso che noi Occidentali abbiamo super irritato, atrofizzando tutti gli altri.”
Ci si sente un po’ così anche uscendo dal ristorante, percepito come un percorso, una esperienza vivente della cultura nipponica scandita da pause contemporanee.
E come in quella promenade lecorbuseriana che ti porta all’ascesi, anche qui ti senti proiettato verso una dimensione onirica, quella dimensione che a volte serve riportare dentro le nostre vite per permetterci di guardare dal di fuori, avendo migliore percezione di ciò che ci sta attorno, e perché no, anche di noi stessi.