Trieste è una città che adoro e, come sempre quando qualcosa mi fa essere eccitato, non ne saprei spiegare il perché con un elenco di eccitanti aspetti. Certo, proverei a farlo, ma un tale amore risulterebbe strano all’ascoltatore, perché in realtà tutti quegli aspetti più o meno eccitanti partecipano a creare un’atmosfera che mi sarebbe possibile spiegare solo con ampi gesti ed espressioni facciali poco adatte a quasi ogni contesto sociale.
Nel mio precedente viaggio triestino, tuttavia, non ho visitato un luogo che tanto avrei voluto vedere da vicino, in quanto da lontano si vede da quasi tutta la città: il Rozzol – Melara, più comunemente noto come “il quadrilatero” o “Alcatraz”. Questa enorme fortezza di cemento armato, che venne costruita negli anni ’70, ospita 468 appartamenti e deve il suo nome alla sua forma, un quadrilatero formato da due enormi corpi a L.
Nonostante fossi in viaggio con altri tre architetti, bisognava creare l’occasione per una gita al Rozzol in quanto, tra il castello di Miramare, la risiera di San Sabba e una serie lunghissima di bicchieri di Friulano (ex Tocai) le cose da fare e da vedere abbondavano. E diciamo che il quartiere non è proprio centrale. Ma ho saputo trovare subdolamente l’occasione.
Quest’ultima è arrivata dopo una cena in un’osmiza – una sorta di agriturismo sul Carso lungo il confine sloveno, nonché uno di quei luoghi che rendono per me Trieste speciale, e quindi tappa obbligata. La scelta dell’osmiza non è stata però casuale, essendo a pochi minuti dal quadrilatero.
E così, dopo aver bevuto circa un litro di vino a testa e mangiato un fantastico tagliere di salumi e formaggi, ci siamo incamminati, zigzagando un po’, verso la fermata dell’autobus, sulla quale, eccolo lì, trionfava il nostro castello. A quel punto non potevamo non entrarci.
I triestini con cui avevo parlato me lo avevano descritto non come un luogo propriamente felice. E devo confermarlo: sebbene ci siano anche alcuni graffiti simpatici, le tag sui muri contribuiscono a creare un clima stereotipato, da ghetto, al quale contribuiscono i mozziconi di sigaretta in giro, qualche vetro rotto e qualche auto parcheggiata nei lunghissimi corridoi. Non un’anima. Gli unici esseri viventi incontrati sono stati una ragazza e il suo cagnolino. Fa specie, se si pensa alla quantità di gente stipata in quello che dovrebbe essere un pezzo intero di città – con la sua piazza, la sua chiesa, la sua scuola, le sue sale, i suoi negozi – concentrato in un edificio. Queste erano, almeno, le intenzioni dei progettisti.
Nel camminare, nonostante l’orario non diurno, non ho avuto quel senso di insicurezza che mi aspettavo di avere. Forse per qualche traccia di vita, qualche foglio sparso qua e là che testimonia l’esistenza di gente normale che fa cose normali in un condominio normale. In sostanza, non parliamo di un luogo come le “vele” di Scampia (anche se la mia amica Vale se la stava facendo addosso).
Nel “programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie” il Rozzol Melara si è piazzato 58° in graduatoria e sono stati stanziati 18 milioni di euro per finanziare i progetti di riqualificazione presentati, bloccati, come per beffa, dal decreto “milleproroghe”. A quanto pare circa un mese fa è stato pero trovato un accordo con il governo, e questi soldi saranno utilizzati nel giro di due anni.
Ma al di là delle situazioni di degrado proprie di molte periferie, quel che a mio avviso rappresenta una vera sfida per il Rozzol Melara, è la trasformazione di un edificio dalla scala disumana frutto di un’architettura che al posto di costruirsi intorno ai bisogni degli abitanti, ha cercato con coercizione di imporsi su di essi, sebbene i fallimenti dei pionieri di queste astronavi fossero già noti. Dimensioni e rapporti condivisi con altri (forse più) celebri esempi: le vele di Scampia, lo ZEN di Palermo, il Corviale di Roma, il “biscione” di Genova e perfino il più ben messo Monte Amiata a Milano. Tutti edifici realizzati intorno agli anni settanta, di stampo pseudo-razionalista (quando il razionalismo era già fallito e defunto), non razionali, che con le loro dimensioni e le loro utopie architettoniche non sono diventati altro che prigioni relegate ai margini della città.
I loro negozi sfitti, le distanze da percorrere, la loro voluta indipendenza dal resto della città, sono tutte problematiche che si sommano a quelle già ben note dei quartieri periferici i quali però, almeno, risultano ancora essere vivi e parte integrante di un tessuto di relazioni: la città.