
È stata la visita al museo MAGA di Gallarate – nel contesto della mostra “Arte e design. Design è arte” (progetto di Philippe Daverio, a cura di Emma Zanella, Vittoria Broggini e Alessandro Castiglioni) – a ripropormi alcuni eclatanti esempi di design radicale, concetto introdotto da giovani designer italiani fra gli anni ’60 e ’70, inizialmente tramite l’apporto dei gruppi Archizoom Associati e Superstudio oltre, in seguito, a quello di Ettore Sottsass, che ne fu esponente di spicco, e al contributo significativo di molti altri nomi del panorama italiano di quei tempi.
Il radical-design guardava alle forme d’arte d’avanguardia – come la Pop-Art e l’Arte Concettuale, per esempio – e alle controculture del tempo, ribellandosi alla concezione razionalista così come a quella funzionalista, ai processi autoriali e ai metodi tradizionali di fare design, cui opponeva un approccio istintivo e provocatorio. Esercitare l’ironia, con una certa dose di sregolatezza, oltre all’uso di un linguaggio diretto, erano caratteristiche fondamentali della corrente.

Pratone, la seduta innovativa disegnata nel 1971 dal Gruppo Sturm, composto da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso, ne è un esempio palese: la sua struttura eccentrica, fuori da ogni logica conosciuta, è inscritta in un parallelepipedo ideale e rappresenta una zolla ingigantita, nella quale 42 fili d’erba flessibili e accoglienti permettono all’utente di accomodarsi, sperimentando una forma inconsueta di relax.
Sdraiarsi nell’erba: cosa c’è al mondo di più riposante? Ma arriviamo al punto: Pratone è verde come l’immagine che evoca. La visione dei progettisti è stata, infatti, quella di scegliere un colore iconico, figurativo, che riuscisse a richiamare l’essenza stessa dell’oggetto, ad emularne i contenuti permettendo all’osservatore di percorrere schemi mentali lineari e consueti per riconoscere qualcosa di noto.

Il verde è, per sua natura, un colore rilassante: la lunghezza d’onda del verde spettrale è intermedia, qualità che rende agevole la sua percezione, non costringendo la retina a modificarsi nella messa a fuoco. La sua associazione con la natura contribuisce a incrementare il suo potere ristoratore, che richiama paesaggi direttamente connessi a sensazioni di quiete, riportando alla mente la freschezza di un’infinita varietà di specie e di tinte proprie del mondo vegetale.

Tentando di scardinare l’abitudine, molto comune ahimè, a usare impropriamente l’aggettivo come sinonimo di celebre o riconoscibile, è utile – per inciso – portare l’esempio di colore iconico perfettamente rappresentato dalla copertina dell’Oscar Cult Mondadori Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, il cui design è, a mio avviso, un capolavoro di intelligenza comunicativa. Il libro, rosso fuoco in ogni sua parte, inclusi i tre tagli, è visivamente incandescente: l’oggetto-libro non è, qui, il contenitore di un testo che narra di libri bruciati, bensì è il libro bruciato stesso, che arde in presenza dell’osservatore, mentre il suo colore assume il ruolo di icona e incarna la natura stessa del fuoco.

Tornando a Pratone, lo scorso anno, in collaborazione con Gufram, il collettivo MSCHF ha rielaborato l’oggetto, realizzando un’opera d’arte concettuale adatta ai tempi in cui viviamo, esposta presso la Galleria Perrotin di New York: i grossi fili d’erba, recisi, recano i segni di vere e proprie amputazioni. L’immagine di Cut Pratone, che riconduce – senza mezzi termini – a un’idea di sofferenza a noi comprensibile, è avvalorata dal rosso sangue dei monconi, colorazione che assume senso nell’astrazione, ossia nel passaggio di specie subìto dall’oggetto che, da vegetale, viene umanizzato e il cui colore ne accompagna la trasformazione: l’idea di “linfa versata” non invoca empatia, un fluido verde non ci spaventa né ci commuove; per questo è stato necessario operare una sostituzione cromatica in grado di fare leva sulle nostre emozioni più profonde.

Anche Cactus, l’appendiabiti realizzato nel 1972 da Guido Drocco e Franco Mello per Gufram, è un’opera di design radicale: l’impertinente intervento – esotico e pop – di una pianta grassa alta un metro e settanta, ha il potere di rivoluzionare l’estetica dell’ambiente domestico, introducendo l’elemento giocoso come nuova componente inattesa. A differenza di quelle a colorazione verde – brillante, non più in produzione, e giallastra – che mimano figurativamente, con irriverenza, la natura del vegetale, altre innumerevoli versioni sono state create nel corso del tempo. L’opzione iconica, in esse, lascia il posto a tinte iperboliche e prive di ogni riferimento concreto, capaci – pertanto – di insinuare una presenza cromatica aliena, estranea alle immagini che fanno parte del nostro vissuto o all’esperienza di chi ci ha preceduto.

Esiste, però, anche un Boring Cactus, un cactus “noioso”. Per deduzione cromatica, chi ha denominato l’oggetto – che appare imponente, grigio e piatto – ha giustamente ritenuto che non potesse portare energia, in quanto acromatico. Il grigio è, infatti, il colore dell’assenza di emozione, dell’indecisione, della neutralità, del non lasciarsi coinvolgere. È la definizione che diamo alle giornate prive di stimoli ma anche, all’opposto, rappresenta il colore della tecnologia e della solidità: per questo è la valida alternativa da inserire in ambienti essenziali e “industriali”.

In totale contrapposizione cromatica, una distesa squadrata di pelo nero e lucido, provvisto di lunga coda e occhi verdi, ammicca dal pavimento del MAGA, più iconico che mai: è Lorenz, uno splendido pezzo di design radicale, firmato Marion Baruch.