Sotto il sole, dalla prospettiva del Lungomare Marconi – al Lido di Venezia – il Palazzo del Cinema non lo si riesce a guardare: il suo bianco abbacinante e totale fa socchiudere gli occhi. È marzo e, in assenza assoluta di attività, le saracinesche – perfettamente bianche anch’esse – sono abbassate. Poligoni d’ombra disegnano greche scure e spigolose sotto la pensilina, contrastanti sullo sfondo candido. La costruzione, smisurata nella sua “bianchezza”, appare lunga, distante, quieta.
Nel lavoro di Henning Larsen, vincitore del concorso per progettare un edificio che completasse il centro universitario del MCI di Innsbruck, il bianco è – invece – elemento costitutivo. Il colore rappresenta infatti il comune denominatore, capace di collegare il nuovo nucleo agli elementi preesistenti. Sul paesaggio spesso innevato, coronato da cime imbiancate che fanno da sfondo ai i palazzi storici del centro e agli altri fabbricati del campus, si staglierà una struttura interamente bianca e protesa verso il cielo, nitida, neutra e leggerissima.
Il bianco è irradiante; espande i contorni, dilatando percettivamente il volume. Per questo un edificio bianco appare etereo e immenso: come nel caso della balena bianca di Melville, la luminosa monocromia genera rispetto, meraviglia, silenzio.
La stazione di Reggio Emilia di Santiago Calatrava ne è l’esempio calzante: ci sentiamo attratti dalla fredda compiutezza di un’architettura essenziale e contemporanea, che sfida il contrasto con i campi incolti che la circondano inserendocisi, paradossalmente, alla perfezione: un imponente elemento bianco, sterile e alieno, che si delinea all’improvviso come se fosse comparso dal nulla. Non c’è spazio – però – per un trasporto emotivo: il bianco mantiene le distanze; non ha capacità di commuovere, non appassiona.
Disegnata da Michele De Lucchi, la linea di accessori da cucina Plissé di Alessi mostra al meglio, nella versione bianca, la sua eleganza: lontani anni luce dalle varianti colorate, i piccoli elettrodomestici, bianchi e plissettati, spiccano per leggerezza, essenzialità, esprimendo l’eccellenza del design, l’armonia dei volumi.
Al di là della purezza delle sculture rinascimentali – nelle quali la levigatezza del marmo scolpito testimonia l’apice dell’abilità indiscussa dell’uomo-artista – liscio e artificiale, metafisico, il bianco abbagliante delle opere di Lucio Fontana lascia idealmente percepire lo spazio retrostante lo squarcio, prodotto da una lama affilata. Concreto, fisico, umano è invece quello disidratato del cretto bianco di Alberto Burri. Con James Turrell e Roji Ikeda, il bianco torna alle origini mostrandosi come pura luce, la stessa luce bianca che quasi 400 anni fa’ Isaac Newton scompose attraverso un prisma di vetro, scoprendo che in essa sono racchiusi tutti i colori dello spettro visibile. Il bianco-luce di queste installazioni, rispettivamente immateriale e accecante, dipinge le superfici o provoca reazioni fisiologiche: l’assenza di implicazioni soggettive in entrambe le opere d’arte conferma e rafforza, in un curioso parallelo, la natura algida e sublime del bianco.
La capacità riflettente di questo colore, la stessa che rende i ghiacciai un elemento chiave nell’equilibrio di termoregolazione del pianeta, è alla base del concepimento di una tecnologia passiva di refrigerazione: dipingendo i tetti con una pittura ultra-bianca di concezione innovativa, a base di solfato di bario, potremmo infatti abbassare considerevolmente la temperatura interna degli edifici. È facile intuire, quindi, perché gli agglomerati urbani situati nelle aree più calde del mondo siano imbiancati a calce.
Interni total white hanno espresso nel passato la concezione minimalista e spettacolare dello spazio: una palette “bianco su bianco” offre un evidente effetto scenografico perché la sua immacolata, innaturale, monocromia sorprende e colpisce, azzerando la presenza dei molti contrasti propri di ogni ambientazione, che indubbiamente distraggono dall’uniformità complessiva. Troppo spesso, però, scelte cromatiche così estreme sono nate da indecisione o mancanza di fantasia, incompetenza cromatica di base o forse dall’incapacità di elaborare progetti ad hoc in grado di condurre, senza sforzo eccessivo, a un risultato sufficientemente suggestivo.
È certo che l’elevatissima capacità riverberante del bianco rende l’uso di questo colore sulle pareti interne una scelta a dir poco critica, in particolar modo se considerata dal punto di vista dell’ergonomia visiva: ambienti troppo luminosi, fastidiosi alla vista, costellati da ombre grigie e ne sono il risultato. Le pareti si sporcano rapidamente, richiedendo continua manutenzione. Un eccesso di bianco, è evidente, rende lo spazio monotono e poco stimolante per chi ci vive, privo di contrasti invitanti. Come affermava Frank Mahnke, poi, l’assenza di contenuto psicologico, caratteristica del bianco, e la sua incapacità a generare emozione si risolvono in un disequilibrio cromatico che non è certo di aiuto nel tentativo di produrre benessere.