E se i colori non esistessero? Ho provato a immaginare di  trovarmi immersa in un mondo in cui ciò che mi circonda non disponesse della varietà cromatica a cui siamo abituati. Le pareti di casa sarebbero grigie proprio come i fiori freschi nel vaso, simili ai colori dei cuscini sparsi sul divano. Non ci sarebbe poi tanta differenza fra il cenere, poco definibile, del tavolo del soggiorno e il color ardesia sbiadito del pavimento. Faticherei, ne sono sicura, a distinguere le foglie degli alberi che vedo fuori dalla finestra, di un grigio piuttosto intenso rispetto al cielo plumbeo, cosparso di nuvole leggermente più chiare.

La monotonia del paesaggio apparirebbe modulata sulle varianti acromatiche della scala dei grigi; chiaroscuri e valori tonali definirebbero la tridimensionalità degli oggetti e la loro posizione nello spazio. Bianco e nero, i due poli, incarnerebbero il ruolo di accenti poco evidenti, che finirebbero – a causa, spesso, della mancanza di differenze visibili – per fondersi irrimediabilmente con altri elementi dell’ambiente. 

©Carla A. Bordini Bellandi

Chi soffre di acromatopsia completa è incapace di distinguere i colori: per chi non ha mai avuto accesso al mondo colorato come noi lo conosciamo, però, il concetto stesso di colore è totalmente sconosciuto e la visione del mondo in bianco e nero assume una connotazione diversa – paramentrata alle varie sfumature di grigio – da quella che significherebbe per noi. Il caso degli abitanti dell’isola di Pingelap, nell’Oceano Pacifico, è eclatante perché una percentuale importante dei suoi abitanti, intorno al 10%, soffre del difetto visivo che comporta la cecità totale ai colori.    (“L’isola dei senza colore”, Oliver Sacks).

Chi ha provato, invece, l’esperienza di veder scomparire le tinte dalla propria vita, l’ha considerata terribile e inaccettabile, a tal punto da cadere in depressione: a causa di un danno alla corteccia cerebrale procurato da un incidente, un pittore americano ha perso improvvisamente la capacità di percepire i colori (“Un antropologo su Marte”, Oliver Sacks). La storia si conclude positivamente, ma induce a riflettere  sul ruolo cruciale del colore nella nostra vita, che ci permette di vedere il mondo come lo conosciamo, ma soprattutto di percepirne i segnali.

©Carla A. Bordini Bellandi

Primo elemento che il nostro sistema visivo coglie, il colore si concreta infatti nel segnale biologico capace di garantire la sopravvivenza di piante e animali, noi inclusi: per esempio, vedere frutti rossi in contrasto sul verde della vegetazione permette, a certi uccelli, di trovare agevolmente cibo adatto a loro. Similmente, il manto di alcune specie possiede il colore utile all’animale per mimetizzarsi nel proprio habitat. La tossicità di alcuni funghi velenosi è annunciata tramite un colore segnaletico mentre, al contrario, le tinte sgargianti delle piume del pavone maschio, per esempio, attraggono la femmina durante il rito del corteggiamento.

È facile, quindi, affermare che il colore sia necessario alla vita e che esso non esista indipendentemente dalla capacità di rilevarlo. Il colore è, infatti, il risultato della percezione umana delle diverse lunghezze d’onda che ci colpiscono e che – attraverso il sistema visivo, che include occhio e cervello – determinano in noi varie sensazioni di colore. Così, il colore è energia, è vita: è evidente, sarebbe un errore grossolano considerarlo soltanto un elemento decorativo

L’idea di un mondo senza colore mi fa pensare al lavoro fotografico del grande Ugo Mulas che fra il 1963 e il 1964 ha ritratto il Cirque Calder. Il soggetto raffigurato è la personalissima riproduzione – colorata – di un circo in miniatura realizzata da Alexander Calder nel 1925 con materiali di scarto, e che si trova oggi presso il Whitney Museum of American Art, a New York. Concepito come struttura architettonica vera e propria, è contenuta interamente in alcune valige. È completo di tendone, personaggi umani movibili – come l’acrobata, i pagliacci, il lanciatore di coltelli, la danzatrice del ventre, il domatore di leoni e i trapezzisti – oltre agli attrezzi e, tanto per citarne alcuni – agli incredibili animali: dalla giraffa al cane, dal leone alle colombe ammaestrate.

L’artista stesso ha portato lo spettacolo in tourné nella Parigi degli anni Trenta, affascinando gli artisti del tempo, prima di esibire la propria fiabesca performance in America. Tornando alle fotografie di Mulas, in bianco e nero, esse riescono a proporci del lavoro di Calder immagini che si concentrano sull’estetica strutturale del lavoro, epurandolo dalle passioni intrinseche al colore per condurlo su un piano narrativo altro, focalizzato sulla creazione e sulla vitalità dei personaggi, presentati come se fossero reali: una rappresentazione che non è cronaca, bensì interpretazione.

Fermare un circo nell’esibizione della propria perenne recita a tinte forti su una pellicola in bianco e nero – come del resto hanno fatto nel cinema, in modo diverso, Wim Wenders e altri registi prima di lui  – significa scollegarlo dalla propria materialità drammatica collocandolo sul piano dell’astrazione, ma anche di attribuirgli un contenuto poetico o, da un’altra prospettiva, di narrarlo usando la forma rispettosa e asciutta del ritratto.  

Photo Courtesy ©Alessi SpA

Tornando al circo che, in quanto metafora della vita, racchiude in sé l’assoluta rilevanza del ruolo del colore nelle nostre esistenze, ha ispirato a volte anche il design. Alessi su questo tema propone Circus, il lavoro dell’olandese Marcel Wanders, che utilizza personaggi e addobbi tratti dal mondo circense per disegnare una collezione di oggetti per la tavola: la giostra, l’elefante, il giocoliere; oltre all’acciaio e al vetro, materiali di base, gli elementi cromatici ricorrenti sono rosso, giallo, bianco e nero: sono colori pieni e densi, drammatici, che il designer ritiene inscindibili da quel contesto, ricorrenti nei motivi geometrici dell’immaginario circense; evocano le emozioni forti, le passioni, il pericolo affrontato con un grano di follia. Figurativi, i personaggi sono la buffa, vagamente malinconica rielaborazione delle caratteristiche e degli atteggiamenti stereotipati che corrispondono loro.

Photo Courtesy ©Meritalia

Di matrice diametralmente opposta è il divano Giullare, concepito da Gaetano Pesce. Si tratta di uno degli innumerevoli pezzi di design radicale per i quali cui il designer ha fatto largo e personalissimo uso del colore. Il divano, di Meritalia, è composto da spicchi colorati e uniti fra loro, su ognuno dei quali si ripiega un cuscino a triangolo isoscele allunngato, conformazione caratteristica degli elementi a punta che terminano con un sognaglio, formando il celebre copricapo del giullare. Nella versione più evocativa, i colori sono brillanti e ipersaturi, giocosi, allegri, capaci di rimandare a una visione ironica e dissacrante del circo, utile a risollevare il morale non certo alle stelle, di questi tempi.

Cover Photo Credits ©Carla A. Bordini Bellandi


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