“Vivere a colori” non è solo un modo di dire, ma un approccio alla percezione, all’emozione, alla memoria. Il colore è atmosfera, racconto, identità e in architettura – come nel cinema – non ha una funzione accessoria: è elemento strutturale, capace di plasmare lo spazio e incidere sull’esperienza.
Da architetta, lo constato ogni giorno: la scelta di una tonalità può trasformare radicalmente la percezione di un ambiente, orientare una narrazione, generare accoglienza o creare distanza. In un’epoca in cui l’omologazione visiva rischia di appiattire anche lo spazio abitato, il colore torna a essere uno strumento di espressione radicale, in grado di restituire identità, appartenenza e visione.
Oggi, mentre molte città inseguono linguaggi neutri e universali, si affermano pratiche progettuali che riattivano il potenziale emotivo del colore, nei quartieri in trasformazione, nei mercati popolari, nei nuovi spazi pubblici. È in questi contesti che il colore riemerge come linguaggio potente, inclusivo, narrativo.
In questo articolo ho voluto esplorare l’intreccio tra architettura e cinema attraverso il filtro del colore, osservando come figure apparentemente lontane – da Louis Barragán a Pedro Almodóvar, da Jacques Demy a Damien Chazelle – costruiscano mondi riconoscibili e profondamente identitari attraverso precise scelte cromatiche. Il rosa messicano di Barragán non è poi così distante dalle palette pop di Wes Anderson: entrambi raccontano, attraverso il colore, desideri, utopie, fragilità.


Nel cinema, forse ancor più che nell’architettura, la temperatura, il gradiente colore e le scelte di tonalità hanno una capacità essenziale nella lettura e dell’impatto narrativo della pellicola. Un esempio straordinario dell’uso del colore, come codice narrativo ed emotivo, è la trilogia Tre colori: Blu, Bianco, Rosso di Krzysztof Kieślowski, ispirata ai valori della bandiera francese – libertà, uguaglianza, fratellanza. Ogni film non solo porta nel titolo un colore, ma ne è visivamente intriso. Il colore diventa qui una lente interpretativa delle emozioni, dei traumi, delle relazioni.

Kieślowski non “decora”, il regista attraverso il colore costruisce una struttura e un sistema di lettura profondo, proprio come nell’architettura consapevole, dove ogni scelta cromatica contribuisce a dare senso allo spazio e al tempo vissuto.
Se nel cinema la tavolozza cromatica racconta emozioni, tensioni, identità culturali, in architettura il colore può svolgere un ruolo altrettanto potente. Diventa traccia narrativa dello spazio. Non si tratta solo di estetica, ma di scrittura visiva, attraverso materiali, superfici, luce.
Mentre provo a capire il perché di questa forte unione, che anche su questo tema lega due parti indissolubili di me (cinema e architettura), mi vengono in mente quattro correlazioni tra architetture emblematiche e opere cinematografiche che, a mio avviso, condividono la stessa anima visiva:
Casa Batlló – Antoni Gaudí (Barcellona)
Il colore è mito, natura e racconto popolare. Le ceramiche in blu, verde, ocra e arancio dialogano con la luce mediterranea, trasformando la facciata in un racconto liquido tra onde marine e leggende draconiche.
Il suo corrispettivo cinematografico potrebbe essere Pan’s Labyrinth di Guillermo del Toro – dove l’elemento architettonico si fa simbolico, e il colore abita un immaginario onirico e mitologico.

The Imprint – MVRDV (Incheon, Corea del Sud)
Un’architettura teatrale, dove il colore diventa dichiarazione. L’edificio “senza finestre” è ricoperto da facciate stampate e una porta d’ingresso d’oro che sembra sciogliersi: ironia, spettacolo, artificio.
Il collegamento che mi sento di fare è con Enter the Void di Gaspar Noé – una Tokyo psichedelica, dove il colore è allucinazione e viaggio interiore. Lo spazio urbano si trasforma in superficie sensoriale, riflesso del desiderio e della vertigine.

Hundertwasserhaus – Friedensreich Hundertwasser (Vienna)
Un’esplosione anarchica di colori, curve e materiali. Qui il colore è protesta contro la monotonia del modernismo. Ogni tonalità rivendica individualità, natura, libertà.
Mi viene in mente Amélie di Jean-Pierre Jeunet, dove Parigi diventa favola attraverso una palette calda, satura, poetica. Come Hundertwasser, costruisce un mondo “altro”, delicatamente sovversivo.

Kindergarten Fuji – Tezuka Architects (Tokyo)
Uno spazio per bambini dove il colore è stimolo cognitivo, gioco, pedagogia. Pavimenti, mobili e pareti diventano un’estensione del corpo e della fantasia infantile.
Il paragone mi sento di farlo con The Florida Project di Sean Baker – un’America pastello ai margini di Disneyland, vista con gli occhi di una bambina. Il colore qui è sogno e sopravvivenza.

Ecco però se parliamo di colore in architettura, Louis Barragán è un riferimento imprescindibile. La sua Casa Gilardi a Città del Messico è un capolavoro cromatico: pareti magenta, gialli solari, blu profondi che interagiscono con la luce naturale, trasformando lo spazio in una scena teatrale.


Una sensibilità affine si ritrova nel cinema di Pedro Almodóvar, dove le palette vibranti e saturate raccontano con intensità la cultura e le passioni spagnole.
Un altro esempio architettonico emblematico è La Muralla Roja di Ricardo Bofill – di cui ho scritto più approfonditamente qui: Squid Game e La Muralla Roja.

Una struttura onirica e geometrica, dai colori accesi – rosso, blu, rosa – che sembra uscita da una scenografia di fantascienza. Le sue atmosfere cromatiche dialogano perfettamente con quelle di registi come Nicolas Winding Refn o Harmony Korine, che usano il colore per manipolare la percezione e l’emozione visiva.
Nel contemporaneo, Herzog & de Meuron con la VitraHaus propongono un uso più sottile ma efficace del colore. All’interno, le palette mutano con le stagioni, trasformando lo spazio in un palcoscenico dinamico, simile all’approccio di registi come Guadagnino, per cui il design ambientale è parte integrante della narrazione.

Infine, l’intervento urbano di Lacaton & Vassal nel Tour Bois-le-Prêtre di Parigi mostra un uso del colore sociale e abitativo: tende mobili e logge cromatiche restituiscono dignità agli spazi domestici, evocando il cinema realistico e politico dei fratelli Dardenne o di Bong Joon-ho, dove lo spazio abitato diventa metafora della condizione umana.
Io credo che il colore sia un potente strumento per progettare spazi non solo funzionali ma capaci di comunicare, emozionare e connettere culture. Nell’epoca contemporanea, in cui la complessità sociale e ambientale impone nuovi sguardi, il colore può diventare linguaggio universale: un ponte tra memoria e innovazione, tra estetica e significato.
Eppure, se il colore oggi si fa bandiera di identità e resistenza, è altrettanto provocatorio riscoprire la forza espressiva del bianco e nero. Nel cinema – e non solo – non è più un linguaggio nostalgico, ma una scelta consapevole, quasi radicale. Il bianco e nero è sottrazione, chiarezza, struttura. Nulla è più contemporaneo di ciò che riesce a parlare oltre il tempo.
Pensiamo alla recente riproposizione in sala della versione in bianco e nero di Parasite: un’operazione che non cancella, ma esalta. Spogliare l’immagine significa riscoprirne i volumi, i contrasti, le tensioni. È come togliere il superfluo per far emergere l’architettura pura dello sguardo.

Il bianco e nero, come il colore, possiede una forza sovversiva. Ci sfida a vedere oltre il convenzionale, a fare dell’essenzialità un terreno fertile per l’innovazione. Perché, in fondo, anche in un mondo che vive a colori, spesso è nel contrasto più netto che si trova la luce più intensa.
Cover Photo Credits ©alxpin
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