“Comprendere” in quanto avvolgere, abbracciare, contenere in sé – alternativamente o simultaneamente – lo spazio e il pensiero, i luoghi fisici come quelli dell’intelletto rappresenta, forse, la verbalità più propria dell’architettura e della filosofia, del filosofare e dell’architettare insieme, del vivere come modo primo dell’afferrare, del carpire, del conoscere.
Conoscere in quanto “com-prendere”, prender dentro, nella presenza, nella “com-presenza”, della concomitanza, nella coabitazione delle istanze del reale, quest’ultimo complesso e semplice a un tempo, nella propria miracolosa e paradossale armonia di intenti e meccanismi, nel proprio “cosmo” entropico, ordine della sovrabbondanza, riparo pensile sul caos.
“Comprendere” come “conoscere”, quindi, se per conoscere in effetti – come ci prescrive la filosofia del Simposio, quella delle origini – non si intende altro se non l’amore stesso per la tensione azzardata verso il limite, per l’Eros figlio di Poro (gr. Πόρος) e di Penìa (gr. Πενία), per la personificazione erotica dell’ingegno e della precarietà, della povertà alta e dell’autocoscienza, dell’inseguimento insperato sulle tracce di Afrodite, amore dell’amore, istruzione prima di Diotima a Socrate e di Socrate all’umanità.
“Comprensione” come “conoscenza” e “amore”, dunque, come viluppo fecondo e simpatetico che si nutre di incontro, di connessione, di unione: unione di tempi e bisogni, compartecipazione circolare al banchetto di Apollo (gr. Ἀπόλλων), al fulgore centripeto della sapienza, sole che scandisce le fasi e gli equinozi, i movimenti di un tempo plurimo che è solo e soltanto nella connessione degli eventi, nell’evento convissuto, nell’evento dell’essere-con-l’altro.
“Comprensione” come “onni-comprensione”, compresenza delle particolarità, continuum emozionale, tempo continuato del racconto, narrazione dell’attimo, progetto di Simposio.
Il “progetto”, esistenzialmente inteso come la declinazione più profonda della connessione eterna fra l’uomo e la sua propria libertà, è certamente al centro, essendone saldamente il centro, del convivio di Forneria Metropolitana, in quella convivenza di mondi, ambienti e habitat in cui, come nel Simposio, l’amore per la sapienza e il cibo – per l’amore in quanto cibo e nutrimento della sapienza – è l’unica via possibile per la totalità, essendone di fatto la portavoce.
Ideata dal Gruppo Casillo, e poi architettato dallo studio cremasco di Beppe Riboli, la Forneria, agli occhi multi-fronti dei suoi soci fondatori – lo chef Oreste Ganga, Beppe Tarchiati, Stefano Adamo e Alessandro Todaro –, a tutta prima, avrebbe dovuto essere un Paese, al più un pianeta, non di certo una galassia… Il condizionale, però, non ha potuto non cedere il passo: non alla passione, a quella progettante, rotante da sé e per sé che è tipica delle imprese temerarie, di quelle utopiche, di quelle fondative.
Come fermare, infatti, la rotazione silenziosa che tutto sostiene? Come arrestare il corso circolare delle rivoluzioni? “Come sciogliere la Terra dalla catena del suo Sole?”
Forneria Metropolitana: i tempi della connessione
Tra Corvetto e Porto di Mare, nel distretto del rischio e della sfida, della rivalutazione che non è gentrificazione, nella riconquista pacifica dell’inventiva e dell’impegno quotidiano, la Forneria si è così fatta luogo utopico, farina di un quartiere che si vuole migliore, che è mosso dal fuoco del riscatto. Dapprima panetteria, poi anche focacceria e pizzeria, ruota incontrollabile centrata sul cibo (“food-centred”), sull’amore del cibo e sui tempi multipli del racconto architettonico-filosofico e culinario, sull’angolo giro dell’accoglienza e della ristorazione intesa come vicinanza multisensoriale, Forneria Metropolitana si è dunque messa in moto, divenendo altro dal bozzetto iniziale, auto-compiendosi come altro, come disegno in sé, come progetto auto-progettantesi, come motore mobile attorno al quale orbitano i tempi della vita, di vite differenti che, dall’alba al crepuscolo e ancora oltre, nelle braccia illuni della sera, accolgono e ristorano, come se non potessero fare altrimenti, come se al suo interno le leggi dell’astronomia fossero neutralizzate, disarmate da un amore senza soluzioni di continuità.
Con le mille soluzioni di un hotel e le leggi irripetibili di una passione trasversale, la forneria si è quindi estesa, diramata, ramificata conservando l’essenza esatta del suo racconto, la scienza onnicomprensiva delle sue connessioni multiple, dei suoi tempi umani.
Tempi circolari, tempi liminari, tempi di Forneria e di richiamo: richiamo di forni ad alta calorosità al di là del calore, calore che rimanda alla grazia mattutina di madri e di nonne, di scolaresche in grembiule che snocciolano formule e bevono il caffè; richiamo di voci oliate dal laboratorio a vista, bellezza ottica che sa di panificazione, di profumi infantili, di grazie umbratili e albe serene; richiami cantati di mercato, di vite in controluce, di vite precoci tra la notte e l’aurora, nella ruota delle stagioni e delle stagionalità, nelle fragranze robuste della carne macellata in proprio, nella propria candida freschezza, come nel candore sapido e pungente del pesce rutilante dalla sclera viva, attore protagonista degli occhi vivi di Beppe – oste onnicomprensivo anch’esso – e del vigore infarinato di Oreste, mitologico eponimo del viaggio, della ricerca, della ricerca degli ingredienti migliori, di quelli vicini, operazioni a resto zero, delizie a km 0.
Forneria Metropolitana è una pellicola che si sovrappone alla vita, ma non per imitarla, no, piuttosto per abbracciarla nella sua interezza: dalla colazione alla cena, passando per il secondo tempo della commissione, delle commissioni familiari, delle dolci rêverie di bimbi che fantasticano tra le braccia forti e affettuose dei registi dell’impegno, della costanza, del rinnovamento.
Fedeli ai valori agroecologici del rispetto, della circolarità, della rigenerazione, della lotta allo spreco, i demiurghi del “mondo nel mondo” di Forneria Metropolitana hanno, in un certo senso, trovato un equilibro che è “fuori” e “dentro” allo stesso tempo: fuori dalle dinamiche consumistiche e lassistiche degli imperi dominanti, fuori dalle logiche indifferenziate e fredde del disimpegno quotidiano e, di contro, “dentro” al tempo, al tempo multiplo delle esigenze condivise, nella casa dell’esser osti, cuochi, ristoratori, accoglitori di esigenze, di bisogni evolventesi, di uomini e donne che, giorno dopo giorno, cambiano pelle e manto come rocce metamorfiche, metamorfosi anch’essi: come il cibo, come la psiche, come l’amore ligneo delle strutture portanti di Forneria, forno e laboratorio, laboratorio caldo che progetta e ospita tra le sue falde tardoindustriali, nella ferrea concatenazione di personalità e ingegni, nel ferro robusto e scintillante delle sue travi, nel portato ferrigno dei suoi significati, delle sue campagne, nella parabola sistemica che punta nientemeno che al Tutto, alla perfezione greca della circolarità, all’imperfezione eletta della fatica fantasiosa, della miracolosa fantasia della fatica euritmica, della sinfonia di ideali condivisi.
Quella di Forneria è una storia di concepimenti, nascite e abbracci.
La filosofia dell’architettura è tempo e racconto.
Forneria Metropolitana è un’incubatrice di totalità.