Se mi si dovesse chiedere cosa sia il tempo, pur sforzandomi sommamente, non riuscirei a proferir risposta. Confesso. Come nelle Confessioni di Agostino, ahimè, sarei costretto a desistere dal farne parola, dall’attribuirgli una grammatica, ad arrendermi alla grammatura della sua ineffabilità.
Ineffabile – per sua natura – è il tempo, tanto quanto – per nostra natura – lo è il  legame inspiegabile e necessario che ci inchioda e ci costringe a coniugarci secondo le sue forme, nell’alveo della sua sensibilità sorgiva, spazializzata perché figlia dell’abitare, intertemporale, interna prima che esterna nel suo fluire che descrive le fasi, i modi, le affezioni del sentire, di un sentire propriamente umano, che viene da dentro e del dentro è cursore, metronomo, ritmo dell’anima, della sua distensione (distensio) mutevole e muta.
Muta, sì, perché è proprio lì dove la parola cessa di essere un fonema che l’Essere, in quanto estasi del “meta-fisico” (metà tà physiká) si addensa in un silenzio dicente (dichten), veggenza oltre i “libri della Fisica”, casa dell’ombra, linguaggio dell’ambra, lingua di Rilke più che di Einstein.
È nel tempo della durata, più che del punto, che il punto-immagine dello spazio-tempo si fa carne, che la potenza materiale (dynamis) si energizza per fissione, bombardamento emotivo, attuazione perpetua della diacronia, atto (enèrgheia) che si compie e non distrugge, che crea rivelandosi nella luce e persino in sua assenza.
Venire alla luce per mezzo del buio: non è forse questo il più sottile nascondimento del tempo, il suo più articolato camouflage?
Nella dimensione multipla del canto, nel dialogo tra le lingue e i silenzi delle epoche, è proprio lì che il tempo si manifesta, come un’aura, un’aureola, un nimbo circolare, come anello di congiunzione tra gli opposti, come fantasma del “tra”, dello spazio intratemporale che sfugge perché concreto e in-concreto, infedele all’attimo perché fedele al sole che dilegua nel mare, alla risacca del divenire, al divenire come eloquenza del silenzio di mezzo, come onda che si infrange indefessa sui frangiflutti, metafora aurea della rifrazione, del frazionamento, della frazione che scorre nel presente numeratore e denominatore, tra il passato e il futuro, nell’intermezzo tra dialogo, silenzio e attesa.
Tempo come fenomeno dell’eternità e metafisica dell’intertempo, dunque.
Tempo della distensione: abito trasparente di una trinità.

Conversazione a tre: uno spazio aperto nel cuore della Milano Design Week
Tra Cairoli e Rho, nell’ “interspazio” della Milano Design Week 2025, nel dialogo tripersonale di un’unica sostanza di pensiero e di sentimento, ha preso forma il cuore sostanziale della rivoluzione trinitaria di Rochon, Wilson e Sorrentino, agenti speciali di una missione epocale: elevare il design oltre il suo stesso medium, attribuendogli un senso spazio-temporale al di là delle sue singolarità spaziali e temporali, scagionandolo dalla sua propria struttura con l’amnistia di un tempo altro, di un tempo dell’altrove che è spazio dell’accoglienza: del dialogo, del silenzio, dell’attesa.

Pierre-Yves Rochon, e la sua Villa Héritage – che si innesta nel percorso espositivo “A Luxury Way” dei padiglioni 13-15 –, dà voce al Salone del Mobile dotandosi di un canto universale, accordo tra arti miste, note in successione eppure in connessione, reciprocità policroma tra saperi, culture ed eredità. A tutela e a rilancio dell’héritage sommersa del dialogo, sulle tracce del suo patrimonio permanente al di là della sua manifestazione transeunte, Rochon ha deciso di scuotere la conocchia della cronologia alla ricerca del filo rosso di un tempo significante, del tempo fondante della narrazione, di quello fondativo del racconto.
Il suo racconto, del resto, non poteva che partire dall’ “Ingresso” – coalescenza di terracotta e pietra serena, macchia d’olio a segnare con cadenza miliare il fluire della storia umana –, accesso alla rimembranza che cattura, catturante grazie alle gigantografie di Massimo Listri benché non vincolante, esercizio rammemorativo della libertà, libertà di restare sulla soglia o addentrarsi, senza vincoli né marchi scarlatti, in un altro rosso, quello carminio del “Salone”, tempo spazializzato del melodramma, del sodalizio teatrale tra Luchino Visconti e la divina Callas, veste del sensibile nei panni insgualcibili della “Traviata”, delle note sempreverdi di Verdi come nella crinolina di quercia di Luigi Bevilacqua, attualizzata dagli allievi dell’Accademia della Scala, a sigillo della molteplicità dell’eleganza, a corredo di un memoriale di stoffe e dagherrotipi, cimeli della reciprocità e dell’ospitalità di tempi senza stranieri.
Nel tempio dell’accoglienza della differenza (xènos), sulla ribalta del palco dell’intertempo, si situa quindi il convivio della “Sala da pranzo”, blu oltremare come l’estraneità altera della profondità, dell’abissale incontro d’altri, crogiolo multilingue in cui spicca, centrale, un arazzo fiammingo e balugina, orbitale e conturbante, la contaminatio vezzosa delle cineserie su sfondo occidentale.
Sfondo su sfondo, gesto su gesto fino alla “Biblioteca”, prugna perché dolceamara, favola struggente e viva della conservazione e del superamento, liturgia di un lascito, eredità filosofica di domande che si rincorrono incessantemente, tra i lembi, i figurini e i tessuti fermentati dal sogno confezionato da Lila de Nobili, ancora nella Traviata, ancora per Maria Callas, soprano dell’acutezza del progresso che si evolve senza per questo rinnegare la sua immortale raison d’être.
Ragion d’essere, ragion di design, disegno narcissico dello specchio che si richiama e richiama le anime dei morti, circonfusi dall’etere che tutto avvolge e immobilizza, come nel “Bagno”, saggio veneziano da onironauti, da visitatori del riflesso, nell’aria vitrea del sonno e del candore.
Candida è poi la “Camera da letto”, bianca porcellana, nivea come la porcellana del suo lampadario rifrangente, centro propulsore di un pastiche dell’opulenza, soffice come le sabbie del lido veneziano, ruvido e nero come la “Morte a Venezia” di Visconti, affermazione neorealistica della tetraggine della nostalgia adagiata sull’“Adagio” di Mahler e sull’eco dolce e lontana del Morricone di “Nuovo Cinema Paradiso”.
Di lampadario in lampadario, da Venezia alla sua gemella Burano, l’attesa di vetro si frantuma nel “Giardino di vetro”, passando in mezzo alle passamenterie, decorazioni e più che decorazioni, cuciture che orlano i confini del tempo, viatici dell’archi-testura, bordure dello spazio naturale dell’ornamento e dell’incontro, del design in quanto contrappunto naturale del mondo.
Infine, contrappunto del contrappunto, arpeggio degli arpeggi, abbraccio della successione in-successiva di momenti del medesimo organismo, ecco lo spettacolo multisensoriale del “Salone della musica”, in cui l’architettura del suono si compenetra con il suono materico dell’architettura, nella luce terrigna dell’incontro dialogico, nel dialogo di soffitto dell’istantanea metastorica di Listri, del suo Pantheon grandioso che si impone come nucleo vibrante tra le corse capillari di un discorso che scorre nelle venature petrose delle opere di Amy Thai come nelle stille metafisiche di Anne Lovett e Michael G. Jennings, particelle discrete di immaterialità partorite dall’intelligenza natural-artificiale del pianoforte Alpange, stendardo del neo-romanticismo di Rochon e della tecnologia del suo olismo, del concerto di tutte le sue anime, del suo invito appassionato al dialogo.

Museo della Pietà Rondanini Castello Sforzesco, Salone del Mobile, Milano 2025 ©Lucie Jansch

Museo della Pietà Rondanini Castello Sforzesco, Salone del Mobile, Milano 2025 ©Lucie Jansch

Nel segno del dialogo e della vivezza senza parole del silenzio, Robert Wilson ha aperto le danze del Salone 2025 al Museo della Pietà Rondanini – Castello Sforzesco, mettendo in scena il suo “Mother”, fine omaggio all’opus magnum di Michelangelo su musiche di Arvo Pärt.
Nello spazio socchiuso e contro-luminoso del Castello, nelle viscere umbratili dei suoi meandri, prende vita, ancora una volta, infinite volte, l’epopea incompiuta del genio aretino, genio-protettore del culto neoplatonico del non-finito, dell’inconcluso come esclusivo mezzotono dell’eternità, come sfumatura della tensione irrisolta e inesauribile verso la chimera della perfezione artistica.
Arte e vita, insieme di inseparabili, nell’ensemble Vox Clamantis diretto da Jaan-Eick Tulve, nella direzione della diversione, del gioco della finitezza irredenta, scacco sprezzante al trascendentale, alla trascendenza della morte, pensée pascaliano che è pensamento di una scommessa, di un dialogo impari eludibile, forse, soltanto per mezzo dell’incompletezza della vita-arte, nella scultorea resistenza della bellezza, nel gesto marmorizzato di un amore senza speranza.
Pietà Rondanini, via Wilson, sulla via della croce, del flagellante per antonomasia, nel compassionevole crocifisso compianto dalla madre e dall’umanità tutta. Uno Stabat Mater, via Arvo Pärt, sulla via del sacrificio, sul terreno chiodato che incorona il figlio e addolora la madre, sacrificata anch’essa per voce dei versi insanguinati di Jacopone da Todi, a pezzi nella parte di madre di un animale sacrificale, nelle partizioni spinose ed elette di Rossini, ad eleggerne il figlio, frutto virgineo di un dono a senso unico, esautoramento dell’animalità, della possibilità, della libertà della scelta: scelta di padre, volere di Padre, volontà di Dio.
Dall’antifona biblica a quella secolare dell’impresa superumana di Michelangelo, nella crepa ovattata del chiaroscuro, dell’alba lanuginosa che barbaglia ma non giudica, Wilson invoca il tempo dell’accoglienza, del Nulla pieno della preghiera, del rifugio vuoto della pienezza, dello spazio cosmico pieno esso stesso della vuotezza armonica di un universo materno e pietoso, che permane, persiste, patisce ma non desiste.
Stabat mater, nel suono quieto di una roccia plasmata da un semidio, nel silenzio di plasma, nel suono che calma, nella fiera insistenza di una madre che ama nel silenzio di una sofferta accoglienza.

Silenzio dell’accoglienza e dell’attesa, quello personale della terza persona della nostra trinità, dello spazio triplice e aperto di un’eufonia a tre voci.
Contro la cacofonia ansiosa dell’incondizionato, prende così vita “La dolce attesa” (pad. 22-24), il progetto-installazione di Paolo Sorrentino per il Salone 2025, allegoria della natalità e delle contraddizioni dell’interruzione.
Spazio-tempo interrotto, punto cieco di Minkowski, cuore caleidoscopico ad attutire i tonfi sordi di un cuore sofferente, insofferente, nella sala d’aspetto dell’impossibilità, della decisione preclusa, nella consegna impotente al verdetto d’altri, nella vita che vacilla alle prese con l’imperscrutabilità clinica di un tempo estraneo.
Sorrentino mette in opera così, nell’abbraccio scenico di Margherita Palli e il sottobosco sonoro di Max Casacci – dai Subsonica al sotto-suono dell’attesa familiare –un’inedita familiarità dell’infamiliare, la camicia di fuoco dell’aspettare, il battito di Eliot che però non si ferma, miracolo precordiale della speranza lucida, dell’assurdità della poesia che non si arresta, di un Sisifo felice che spinge la propria gioia lungo le rampe di un’attesa vigile, masso smerigliato che ipnotizza il dispiegarsi delle possibilità incontrollabili, la scossa tellurica della condanna illiberale alla voragine della scelta d’altri, all’eteronomia terribile della malattia: malattia mortale, angoscia primordiale, asetticità fatale.
Neutralizzare l’ansietà (angst) prima che diventi angoscia, deiezione e precipizio, caduta nella bolla trepidante e tiepida dell’inautenticità: Heidegger dixit. Nello spazio di un altro tepore, quello del progetto caloroso della vicinanza, del prendersi cura, dell’aver-cura, di una carezza ideale che parli di palmo e non di dorso, che non dia il dorso ma che segua il corso degli occhi con la discrezione di altri occhi, porte del cuore, cuore sospeso nel tempo imbalsamato della soglia.
Al di qua dell’attesa, sulla giostra mobile delle memorie immobili del periodo delle mele, è forse possibile riassaporare il tempo agrodolce dell’aspettare: aspettare nel contro-cielo dell’assenza-presente: assenza sonora della cura che, grazie all’attesa, si riconosce conoscendo, cullata dal soffio vitale dell’essenza.
Nelle spire dell’apertura, nell’intertempo fitto di un dialogo tra giganti, risoffia così di bocca in bocca lo spirito della Storia. Dall’eredità euritmica di Rochon, per la preghiera mistica di Wilson, fino alla sala della cura di Sorrentino, ebbene, il passo non può che essere breve: passo d’artisti e di musicanti, di scrittori e commedianti, passo d’uomo, passo dell’esistenza che discorre, ristora e calma, passo vero al di là dell’opinione, del falso mito, della vanità del falso.
La fenomenologia della coscienza è una metafisica dell’intertempo.
La filosofia dell’architettura è la descrizione degli interstizi dell’anima.
Il tempo del mondo è una distensione incessante tra gli stati della meraviglia.