La solidarietà fra passato e presente, fra gli stati interni del nostro tempo personale – della nostra memoria –, all’interno della cornice della temporalità, e negli spazi determinati del mondo materiale, è ciò che senza esitazioni possiamo chiamare “libertà”. Non che la libertà si limiti ad essere questa sola “solidarietà”, nossignore.
V’è libertà in ogni scelta propriamente esistenziale, in ogni accordo percettivo tra dentro e fuori, nella ricezione attiva dei segnali provenienti dall’esterno in un orizzonte di senso dotato di significato.
V’è libertà nell’autonomia sotto il cui segno, negli scoli rotondi delle sue insegne scintillanti, ha luogo l’atto della creazione: del creare che è esso stesso una scelta, scelta poietica, descrizione temporalizzata e spazializzata delle diapositive della nostra vita, quest’ultima imbevuta di emotività, di intimità, di carnalità, di spiritualità.
V’è libertà proprio, ed esclusivamente, in questo continuum spazio-tempo, nella “durata” che contiene, include, vivifica e narra le distensioni e le protensioni della nostra anima, essendo processo rielaborativo finemente individualizzato, meccanico soltanto strumentalmente, “puro” in quanto sinfonia metafisica che crea, oblia, assembla, reinventa, lega.
Nella sede fantastica di tale “memoria pura”, con Agostino e Bergson, troneggia così la facoltà libera della scelta, il nostro senso del tempo e la propensione aurorale all’immaginazione fantastica, al fantasticare prefigurativo che forma il futuro e, più in generale, tutti gli stati della nostra coscienza. Proprio nella coscienza – in ciò che noi stessi siamo –, le imperscrutabili configurazioni del pensare e del sentire, dell’intelligere e del patire si abbracciano confondendosi, circonfondendosi di un fulgore estatico, divino perché muto, silenzioso perché strapotente.
Nella potenza dell’immaginazione come superficie-schermo dell’incontro tra presente e passato, come schema puro del ricordo e della previsione, rivive in effetti il potenziale sconfinato della fantasia, della fantasticheria come evasione e reinvenzione, riqualificazione e innesto, luogo della fermata ben più che della sosta, riparo dalla volgarità, scrigno della possibilità suprema: quella inesauribile della creazione che si ricrea, della materia che si ricanta, dell’energia che non è se non nella libertà fisica e metafisica della trasformazione.
“Durata” come valanga e trama, quindi, scelta creativa che racconta e si racconta in quanto legame, composizione di legami densi, sensi del tempo che trascolora e si progetta attraverso la voce materica della fantasia.
Un’immagine fra materia e memoria: nel mondo di Elisa Carovilla
Come per le piante che, sotto la mano esperta del botanico, e quella attenta dell’agricoltore, si riscoprono altro da sé – varianti di un “sé” che non si contenta del monolitismo, ma che ambisce alla soprannaturale sovrascrizione creativa della propria identità –, anche per Elisa Carovilla, la nostra protagonista di oggi, l’identità degli essenti ha poco a che fare con la stasi, con la fissità, con la pallida stabilità di una monade a cui sono precluse «numerose altre vite».
La rema dell’allucinazione fantastica dell’enfant prodige del simbolismo francese, nella sua iscrizione immaginifica alla terra del passaggio, del transito, dell’innesto aereo di altre foglie – di altre vite – è, in effetti, lo stesso combustibile grazie a cui Elisa, come una novella Mary Shelley, ha compiuto la scelta libera di scriversi riscrivendo la memoria pura dell’infanzia e riassegnandole, grazie alla fabula della sua arte, una nuova favola, un cuore nuovo.
È dal nucleo della sua infanzia, nella creazione rammemorante delle fasi del suo affioramento creativo di bambina, che il surrealismo fantastico delle sue opere, nostalgiche e gravide di avvenire, è stato incorporato nel plasma delle sue materie: materie-ricordi, ricordi materializzati dalla fantasticheria del manipolare, dell’innervare, del vocalizzare, del qualificare, del vivificare.
Milanese d’origine – con Milano all’origine di un’arte metastorica, eppure così profondamente dentro la storia –, Elisa concepisce la propria arte come evocazione, come rievocazione della “voce vocalizzante” dalla sepoltura afona della memoria, come risuscitazione della lingua materna sotto le sembianze dell’immaginazione creativa che si fa produttiva, che si fa solo nel prodursi, riproducendo finali inattesi, ponendosi mete plurali, pluralità di configurazioni, puntuazioni di potenza in circolo, sembianze mutevoli di un ginepraio di identità.
Che gli uomini meritino, secondo il Poeta, numerose altre vite in virtù della loro costitutiva polifonia originaria, non nega alle cose di pretenderne, da par loro, di proprie: di richiederle a gran voce, benché silenziosamente, grazie alla misteriosa eloquenza materica che li contraddistingue.
E allora redimere nel segno della riapplicazione, della riqualificazione, della riassegnazione di genere e fini, convertendo la fine prematura dello spreco, dello sciupio, della perdita nell’infuturamento della mano che palpa, che tocca, che lenisce, che instaura legami impensati con i timbri della propria essenza, con le sfumature vocali del gioco del recupero, del riuso, del rammendo della sutura, della satura che poetizza e cicatrizza, zona d’ombra, ricchezza dello scarto che rinviene, che previene il decadimento con la migrazione alata e il chirurgico misticismo del trapianto, con lo scandalo variopinto della mitopoiesi.
Quello di Elisa è un trapianto di rivoluzioni, un circolo di miti, ricordi, suggestioni e fantasie, il reimpianto organico ed ecologico di nature ferite, di nature morte, di fiabe multicolori, mondi oltre al mondo, mondi di fate, folletti e principesse, tarsie vergini da incastonatori di sogni, da onironauti ceramisti, ceramiche impresse dalla leggerezza metafisica che incide ma non turba, che scava e non ferisce.
Per Elisa, con arpeggi mozartiani ed eterea concretezza, custodire è giocare e giocare è creare: e creare è squarciare il velo sacerdotale dell’apparenza, il tappeto quantico, il culto dell’identico, aprendosi una singolarità nello spazio-tempo, tempo altro, tempo dell’Altro, tempo fanciullesco che ricuce e non strappa, che neutralizza lo spreco dorsale del liberismo con premura da artigiani, rottamatori, fresatori, da restauratori lignei.
Nel lignaggio altro di pinocchi insufflati di fiati imprevisti, nello scenario collodiano dell’altrove, risuona così l’aria di perla dell’utopia vivida, dell’ucronia fervida, della redenzione sacrale dell’atto d’amore: amore istitutivo, prassi del dono, colonia di significati in cui Elisa ha edificato il suo personale paese delle meraviglie.
Con curiosità conoscitiva e corrispondenze meravigliose, ha raccolto, riesumato, rianimato – installando, ricucendo, miscelando. Nella miscela dei suoi tempi multipli, come una vasaia cinese, ha scoperto la generazione ingenerata, la genitorialità alta dell’adozione, la coniugazione sublime della cura. Nell’oro delle sue cuciture, ha ordito la propria cura e tracciato i limiti sacri del suo posto delle fragole, del suo orto incantato in cui l’immagine è l’orlo dorato tra la materia e la memoria e la voce in-originata delle cose riecheggia dappertutto.
Elisa è una esploratrice-riciclatrice, una naturalista-fantasista, una rammemoratrice-inventrice.
La filosofia dell’architettura è la descrizione delle commozioni della memoria.
Elisa Carovilla è un’àncora fra la realtà reale e il suo risvolto fantastico.



