Che le terre di confine, in geografia come nelle geografie convenzionali, per temperamento o retorica, reverenza o timore, siano state da sempre additate di essere dei luoghi pericolosi, quantomeno sospetti, spesso nefasti, è voce inveterata e assai diffusa.
Dal “limes” che delimitava fisicamente e simbolicamente l’Antica Roma, passando per le frontiere oltremondane della Terra del Fuoco, fino a ricordare i portali insanguinati e presaghi di dantesca memoria, nel meridione del paradiso come nell’incipit dell’Inferno, ebbene, lo “spazio del confine” ha attirato su di sé pareri contrastanti e conflittuali, come tutto ciò che estremo e ignoto.
Nel conflitto delle origini, dei miti e delle leggende, nei rituali antidiluviani del sole e della luna, nei manifesti pittati, pittografati, crittografati delle prime testimonianze umane, quelle raffigurative della tradizione aborigena, riscontriamo certamente una sensibilità per il limite remota e originaria pari solo a quella concettuale e speculativa dei presapienziali, dei greci cacciatori di archetipi più che di animali, esseri razionali prima che sensitivi, cercatori di soluzioni più che di enigmi nell’orizzonte occidentale della verità a tutti i costi, della verità della lettera prima che di ogni altra forma simbolica della civiltà.
A proposito di alterità, di forme “non-concettuali”, “immaginifiche” di pari antichità rispetto ai trattati di Anassimandro e, similmente ad essi, votati alla ricerca delle cause prime, di quelle efficienti, di quelle finali, come dimenticare i miti aztechi sulla Creazione, sulla creazione come luogo terminale, come confine a ritroso, come punto zero che è limite e misura di tutti i limiti.
Cosa c’è, del resto, di più ignoto degli inizi?
Nell’architettura e nella filosofia, nelle forme simboliche come in quelle del pensiero scientifico, con la sensibilità o con l’intelletto, per analisi o per intuizione, l’origine in quanto limite ignoto demarca, determina e sancisce senza essere, da par suo, demarcata, determinata, sancita.
Come Virgilio per Dante, si sa del limite quello che non è, per negazione, per teologia oppositiva: il terreno delle nascite e delle morti è un luogo di frontiera, di rottura, uno spazio limbico per agnostici, per coloro che, in effetti, nulla sanno rispetto alla breccia e allo spegnimento.
Quella che chiameremmo – non senza civetteria ma con buona approssimazione lessicale – la “fascinazione ancestrale del limbo”, quell’impercettibile aura che circonfonde ogni barriera con i fumi dell’ebbrezza, del rischio, del pericolo, dell’intemperanza tipica degli esploratori, dei conquistatori di mondi, dei filosofi dell’architettura.
Questi ultimi, in bilico come degli scheletri tribali, sono raffigurazioni della precarietà e, al tempo stesso, di fecondità, abbondanza, di salute. Nell’apparente contraddizione ritualistica fra la tetraggine scheletrica della morte e l’evocazione estatica delle piume di gufi notturni, colibrì cromati e pappagalli screziati, risiede forse il segreto aureo dell’“oltre”, di quello sprone che è sperone puntuto e carezza morbida, teschio sinonimo di rinascita inesausta, pietra turchese incastonata nel cuore nero del dio dell’oltretomba come il melograno dolceamaro del matrimonio fra Persefone e l’Ade.

Sancta: contrasti, rituali, rievocazioni

Con i contrasti, i riti e le rievocazioni provenienti da ogni era cosmica – nella leggenda della “Pietra dei Cinque Soli di Tenochtitlán” come nella “Cosmogonia” di Esiodo –, ha a che fare il nostro caso di oggi – Sancta –, intorno grigio-perla incastonato come la pietra azteca nell’intreccio tra sorgenti e foci, nel limbo anticristiano della saggezza e della fertilità, nell’intorno sadico tra la padronanza delle idee e l’inspiegabile, eppure vitale, tensione verso il limite.
Figlia del respiro ampio della visione dell’architetta Danila Gangemi, e del soffio fondativo di Gianmarco Ciarapica, Francesco La Corte, Luigi Lombardo e Mirko Burrascano, Sancta ha scavato a fondo fino al centro del globo pur di piantare le proprie fondamenta da “casa del contrasto”.
Nella terra-limite per eccellenza, la Sicilia eccellente come il Messico per le agavi e la convivenza orgiastica tra sacro e profano, Sancta ha piantato i propri semi, inseminando il centro città con il cataplasma di una rivoluzione estetica e concettuale fondata, appunto, sul sadismo autoironico del contrasto che non è contraddizione, della complementarità che non è differenza, della differenza filosofico-architettonica di una spiritualità altra.
Di una spiritualità incarnata nelle fibre vive delle carni al piatto come nei piatti decorativi di memoria precoloniale, colonie e leganti di senso fra la ritualistica celebrativa e quella apotropaica, tra la difesa e l’attacco alla pudicizia, al bigottismo, al conservatorismo nei costumi e nell’arredamento, costume e veste del sancta sanctorum di Sancta, giardino vergine in cui gli estremi, come nell’apeiron anassimandreo, convivono nell’amplesso, soltanto nell’estremità dei sensi, nell’indeterminata determinante pangea dei significati.
Come pervasi dai valori sciamanici di Temazcal, i sacerdoti di Sancta sono giunti all’attualità – come nel quinto sole di Tenochtitlán – alla stregua di un terremoto, scuotendo l’atavica sonnolenza cittadina con la veglia attiva del fumo di copal e il turibolo-shaker del mezcal-incenso, a incensare la binomia siculo-messicana e i tempi extramorali dello zampillo, della culla, del legno verde.
Nel legno, dispositivo tattile del divenire, del decadimento che non degrada, del rinnovamento che non rinnega, Sancta ha intagliato la propria corona, umile e preziosa come lo sono tutti i frutti della natura, anticostrutti per antonomasia, meraviglie decostruttive che non soggiacciono alle leggi del capitale. Grazie al proprio capitale umano e allo sguardo storicistico-naturalista della Gangemi, Sancta si è scoperto corpo che non declina, opera kitsch che non spiace perché autentica, autentica solo nelle forme in mutamento delle sue anime: anime cultuali, camaleontiche, ironistiche.
Nella “casa azul”, come per Frida, le infiorescenze della vita e della morte si ingarbugliano vorticosamente per dar spazio al canto della Terra, alla residenza sulla terra di Neruda, rievocando il tempo multiplo della creazione, dei cicli solari della trasmigrazione e del congedo; congedo imbevuto di tequila Azul, di fluidi a  innaffiare il fluo carminio di Sancta, del suo marchio che sovrasta il bar e si imprime tra la carta da parati floreale e la teca santa del concepimento verginale, sul parquet deperito che non invecchia ma che consuma la sua fiamma scarlatta, tra i deschi che consumano le tenebre e la cresta del cero che accende e profana, simbolo flebile del transitare, del decantare, del fermentare, dell’accordare le pareti ai cuori fiammeggianti, pareti atriali, atrio in fiamme che è anticamera di un disegno che degusta le epoche, caverna della fine e dell’inizio, ecloga dell’incubo e del sogno, manus del vizio, mano santa di Sancta.
Sancta come contrasto, rituale e rievocazione.
Sancta come limbo per filosofi, architetti, sciamani della filosofia-architettura.
Sancta come religione di confine.

Cover photo credits: Codex Duran, 1587 ©Phill Sacre