La densità è, tra i sistemi di misurazione, il sistema che meno attiene e “tiene” alla misura, rivelandosi spesso un metro dell’incalcolabile, dell’ineffabile, piuttosto un avamposto dell’intangibile: il corpus unitario dell’immenso campionario di immagini ed emozioni di cui va componendosi l’apparato umano.
“Densità” come decentramento dalla teorica reversibilità della scienza e, insieme, accentramento, avvicinamento, vicinanza dell’esperire e del sentire: concentrato indifferente di differenze, di differenti modi della sensibilità.
Con Bergson, “densità” come valanga di momenti, come metafora della durata, della temporalità larga dell’irreversibilità, dell’im-puntuale essere-nel-mondo che noi stessi siamo. Più semplicemente, matematicamente, “densità” come rapporto tra corpi dotati di massa e volume, unità cubica della pluralità, del dinamismo plastico dell’incontro fisico, del disegno intelligente della spaziatura, del luogo della coesistenza, della coappartenenza, dell’accoppiamento, della metafisica del pensiero e dell’estensione, dell’attributo duplice di una sostanza unitaria. “Densità” in quanto veicolo della semina, della diffusione, della costruzione: colonia di senso per pensatori concreti, per architetti visionari, per architetti-filosofi.
“Densità” come “anagogia dello spazio”, come lettura multidimensionale della narrazione dell’abitare, dell’abitare in quanto dotazione tecnologica di un sito naturale, come plesso dell’esistere e del creare, del creare per l’esistere.
“Densità” come galassia, sistema multistellare, composto tessile in cui trama e ordito si abbracciano per infletrimento, si compattano compenetrandosi le squame corticali fino a confondersi, irreversibilmente unirsi.
“Densità” come campo di forze comunicanti, di distese volumiche ricolme del miracolo magnetico della concentrazione, dell’eloquenza silenziosa di ciò che materiale, materializzato, materico. “Densità” in quanto risultante sismica di scosse convergenti, di crepe e pienezza, di divergenze e innamoramento.
A proposito di innamoramento e fenomeni sismici, di luci, volumi e densità materica, oggi vi racconteremo la singolare storia del Republic.
Esploso a Milano nel 2021, nell’epicentro spaziale di Piazza della Repubblica, sorto nelle macerie, insorto dalle macerie dell’era anestetica del Covid-19, il Republic è, per così dire, il figlio della resistenza. I suoi ideatori – consociati romantici protesi verso un futuro incerto –, in un certo senso, ne hanno esorcizzato la precarietà proprio con la resistenza: la resistenza del disegno creativo, del lavoro concreto, della riappropriazione spaziale, della quotidianità alta di un impegno fattivo, costruttivo, fecondo, in grado di generare e generarsi come orizzonte di significati.
Apparso sullo sfondo dell’orizzonte visionario del designer Ludovico Elia nel 2021, il Republic si è in effetti connotato come un club che è ben più di un club, un club dotato di natura duplice nonché del raro lume della singolarità. Similmente alla luce, si infatti è irraggiato nel cosmo milanese con fare discreto, graduale, particellare, senza però rinunciare alla sua anima ondulatoria, all’onda d’urto che oscilla tra la banda mainstream del dancefloor newyorkese e il glamour retrò da salotto del Bel Paese.
Nel nucleo vibrante della tipicità meneghina, il Republic è irrotto rompendo gli schemi stringenti dell’univocità, della conservazione, scegliendo di essere se stesso, con la propria personalissima biunivocità “volumica” e “materica” e, in fondo, anche etica ed estetica, grazie alla fine coincidenza di libertà e fatalità, di imposizione e reinvenzione, nuotando sul fondo indotto da un virus incapace di abbatterne l’architettura elusiva e una filosofia coraggiosa, in grado di sorvolare le difficoltà contingenti e librarsi nel cielo degli astri fissi.
Così concepito da Elia, il Republic si è infine fatto carne materica e stille luminose, gettito vorticoso che non può che catalizzare, catapultare immediatamente, con la stessa immediatezza del fotone, in corpuscoli e volte quantiche, nella cangianza ondulatoria della privatezza a luci rosse dei tempi di Venere, dei templi anni ’80, del Venus esoterico di Piazza Diaz o di un Tinto Brass.
Nel suo ingresso filmico, metà Molino delle Armi metà Gastone Pisoni, zona di mezzo e richiami, intermezzo d’ombre e rimandi – carica ad alto magnetismo, somma concrezione diluviana di riferimenti e originalità, il Republic si è scoperto profondo e irripetibile, nero chic, buco nero in cui persino lo spazio-tempo sembra fermarsi – criogenetico, spazio genetico, tempo palingenetico del fuoco e del gelo, del disgelo e del rinnovamento, del primordio e della rinascita.
Republic: una galassia di volumi e luci
Il Republic è, invero, il canto del volumico, dei volumi, della volumetrica aura dell’underground che si veste di tutto punto, “chic” e “understated” a un tempo, nell’intertempo sprezzato dell’eleganza e della trasandatezza, nell’applombe ricco della disinvoltura.
Republic complemento aperto della massa che tutto “materizza”, del complimento dello spirito musicale che risuona invisibile nella tromba di ceppo di Gré, tra gli scalini misterici conducenti dal basamento internazionale all’Ade della milanesità, nell’etere della Milano da bere, nell’etereo perno di Bacco e di Persefone, nel tallone da étoile, nell’abissale arcano che mai si dà.
Republic onesto e vanitoso che si spende e si spande: nell’ottone spazzolato della consolle come nelle bottigliere riflettenti, nelle idiocromie alcoliche esaltanti che saltano sulla materia e ne sormontano il marmo, marmo nero Marquinia, marmo pennellato e tutto venato: di potenza estensiva e grazia capillare; tutto screziato e sinuoso con le sue tracce di panna e le sue arterie in carta caffè.
Republic preponderanza alterna, alternanza di Diana e Dioniso, un tempo piuma e l’altro ferro: ferro nero interno, nero nelle vesti e nelle verticali esterne, nelle sue multicolori lucerne; Republic come nostalgia: piumato con la pelle rossa dei divanetti deputati al piacere, da deputati della Prima Repubblica, da incontri del piacere con belle signore in tacco rosso, ghermite dal tocco scarlatto e vellutato dei led di rialto, dei prive e dei ponteggi, del design musicato di sediziosi dj degli arpeggi.
Republic regno dell’hardcore: ibridazione politico-metallica della metafisica dell’utile, dell’imprenditoria temeraria, dell’impresa della creazione.
Republic galassia per pluralisti, statisti e concertisti.
Republic covo per orecchi fini, discoteca per astronauti, finezza satellitare.
La filosofia dell’architettura è la dimensione della densità di senso.
Il Republic è il bit dell’Oltre.
