È ambizione proverbiale quella che, in ogni declinazione dell’umano, prende di mira l’“immutabile”, mettendo a fuoco l’“eterno”, puntandolo caparbiamente, come si è soliti fissare soltanto ciò che non è “accidentale”, “transitorio”, “mutevole”.
L’anelito, intellettuale e carnale, dell’“im-mutevole” è, notoriamente, ideale euristico sposato tanto dall’architettura quanto dalla filosofia. Entrambe, a ben vedere, ardiscono l’universale, ricercano le leggi, le dinamiche governanti su cui va fondandosi l’edificio del sapere, la costruzione valoriale che è sopra e in ogni “cosa” (res).
Il “pensato” (res cogitata) in quanto produzione dell’atto del pensare è, in effetti, la veste prescelta da quel desiderio struggente che, col suo pàthos tipicamente tedesco, Hegel avrebbe poi denominato “sehnsucht”: “desiderio del desiderio”, “passione di passione”, “pensiero di pensiero” (da das Sehnen – “desiderio ardente” – e die Sucht –“dipendenza”).
“Sehnsucht” sarebbe dunque traducibile come “dipendenza dal desiderio”, come quel “dipendere” che, di volta in volta, alternatamente, si abbiglia col “pensare” o col “sentire”, affermando la propria duplicità, battendo angosciosamente due sentieri, appunto quelli del pensiero e del sentimento, paralleli fino a prova contraria, convergenti come limiti, vie teoriche e assolute: esclusivamente nell’ “assoluto”.
Il “restare” – chimera e sprone ultimo – si configura quindi come un contrassegno dell’eterno, come quel “meta-fine” polare che esorta l’uomo – il filosofo dell’architettura – all’azione. “Restare” è la “cosa” del suo agire.
Ideare, elaborare, costruire, creare, fondare, foggiare un’opera che abbia il marchio dell’eternità, che resista al trascorrere delle epoche e perfino della materia, è in fondo il motivo primo della volizione, del volere che corre e si strugge, si strugge e corre sospinto dalla luce verde dell’infinito, dalla nostalgia dell’imperfetto, dalla fascinazione del sehnsucht, quest’ultimo “segno” prediletto dall’irraggiungibile, dal gioco del bello, dalla rifrazione capsulare della luce inafferrabile della sostanza.
La capsula del “bello” e del “buono”, del gusto dell’intelligere e del patire che non sbiadisce è, nella moda come nel design, nell’arte figurativa come in quella letteraria, il dispositivo prescelto dalla trascendenza per manifestarsi, per sopraggiungere nei panni del fenomeno, per farsi realtà. In tale farsi “realtà reale”, toccabile ancorché sfuggente nella sua essenza, l’eterno è solito agganciarsi all’uomo, agganciandone la vanità, il vizio della permanenza. È nella inclinazione alla permanenza che l’impalpabile si fa palpabile, che il mero culto assume consistenza, si sostanzia grazie alla verbalità del fare, alla fattività eternante volta al “restare”, al “capsulare”, al “permanere”.
Perennemente in bilico fra “fermata” e “transito”, il viaggio di senso dell’uomo si compie solo e soltanto in questa controversa dinamica di rimbalzo: nella tensione inesausta fra mutabilità e immutabilità.
Gattopardo Milano: al di là del culto
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», sospirava enigmatico Tomasi di Lampedusa, per voce di Tancredi Falconeri, nel suo “Gattopardo”, in quella profezia bifronte, rivolta all’uomo del futuro e a quello del passato, attraverso il filtro sottile del presente circolare di tutto ciò che è “sostanziale”, che non è soggetto ai cambiamenti accidentali.



“In-accidentale” e, piuttosto, emblematico crocevia di tempi, culti e visioni, è certamente il Gattopardo di via Piero della Francesca, nella Milano del ricordo e dell’attesa, della preghiera ferroviaria che esorcizza il tempo per mezzo dalla sfida roboante, fastosa, opulenta al Tempo stesso.
Sorto nel 2021 sulle ceneri della chiesa di San Giuseppe della Pace, risalente al 1927 e successivamente sconsacrata per via della propria capienza ridotta, il Gattopardo è visibilmente una terra di mezzo, un sito di congiuntura fra le stagioni dell’origine e della fine, il singolare luogo di confine fra sacro e profano, fra religione e azione, un diversivo ancestrale contro la futilità di tutte le cose.


Al riparo dalla fuggevolezza, nell’aperto dell’effimerità ricca della nobiltà del gusto e del costume, il Gattopardo è sorto, quindi, in quanto antinomia, in quanto sfida mondana ai capovolgimenti delle stagioni del piacere, in quanto “capsula del bello”.
Al pari di una capsula, è solito avvolgere i suoi fedeli-infedeli con le sinuosità dei suoi contorni, con le ovalità opalescenti delle sue rotondità, con le cavità femminee che abbracciano e risucchiano con le loro curve vorticose e i vortici curvilinei degli armonici, dei set musicali da mille e una notte. Nella culla borbonica della conservazione fascinosa, ammiccante, flirtesca di un progetto assoluto (absolutus) sciolto dai condizionamenti, dagli eventi esterni, evento nell’evento, il Gattopardo è solito irraggiare le proprie luminescenze stroboscopiche a cento piedi da terra, tanto da ascendere, da scacciare la sehnsucht con le sue vertigini, con le sue altezze cristalline, con le prepotenze di cristallo del suo lampadario, sferico florilegio gravitante sul nulla, teso sui capi danzanti di aspiranti Salina, di rampolli in tuxedo alle prese col proprio irripetibile debutto.
Col suo profilo arcuato e brillante da Ponteleone, nelle mollezze da palazzo delle sue nicchie sormontate dall’impeto cangiante della sua cifra nobiliare, questo luogo “al di là del culto” si affaccia sull’oltre, riesumando le proprie spoglie mistiche per ricolorarle con le tempere alcoliche della sua rinascita da fenice, da pavone dell’ozio, da donna che piace e sa di piacere.



Ben salda sulle lignee colonne corinzie e più in là, in circolo, nelle volte a botte, nei cerchi bacchici del piacere, concentrici e anfiteatrali, nella galleria come nella platea, nella bottigliera incassata dentro all’ebbrezza del sogno, in tutti gli angoli del suo perimetro barocco, riecheggia così l’erotismo antiborghese del sacerdote del Belice, del cantore del Regno, del principato decadente e intimo del principe Salina.
Agli apici, dal pulpito del proprio magistero, davanti allo specchio-scudiero che protegge e vezzeggia le spalle fiere della consolle, la magia si spande come un’antifona, come l’omelia laica di un’intera casata di eletti, tra i palchetti e la pista, verticalmente, con lo stemma rivolto al cielo.
Il Gattopardo è clessidra vuota e totipotente: una spirale dell’eterna giovinezza a base di lussi balsamici, lustrini di lunga vita, flûte che brindano in twist, celebrando il twist tra il valzer ottocentesco dei Falconeri e il charleston twenties dei Fitzgerald. Il Gattopardo è casa, capsula e chiesa: custode della bellezza mondana, officiante del desiderio immoto, annunciatore della risurrezione.


È il crocevia della sehnsucht, della incessante trasformazione, del desiderio che diviene se stesso.
La filosofia dell’architettura è la condotta dei santi, degli empi, degli esteti.
Il Gattopardo è il santuario dell’eterno possibile.