«Lo spazio è il luogo d’incontro tra filosofia e architettura».
A distanza di quasi un anno dalla telefonata galeotta che ha fatto luce sullo spazio di una nuova possibile alleanza, sul concepimento di una “spaziatura comune” tra un filosofo – chi vi scrive – e un designer – Davide Chiesa –, è forse giunto il momento di toccare con mano la nostra gestazione, di cogliere lo stato della nostra gravidanza attraverso un’ecografia morfologica che ne tracci la parabola di sviluppo.
L’esergo del nostro editoriale è, probabilmente, il lascito sintetico più significativo della traiettoria di senso percorsa finora: partiti dall’idea di un “luogo d’incontro”, ci siamo coniugati come “luogo in divenire”, candidandoci poi come “verbo in divenire”, come “scienza del divenire”.
Lo spazio è – realmente – il luogo d’incontro tra filosofia e architettura? Circa quarant’anni prima di me, di Davide, del nostro arrischiato sodalizio, un altro sodalizio non meno arrischiato ha stimato le “condizioni di realtà” del matrimonio tra filosofia e architettura.

Nel 1985, quando Bernard Tschumi recapitava la propria singolare richiesta a Jacques Derrida e Peter Eisenmann, il primo godeva già di una notevole fama internazionale, essendosi appena consacrato come il profeta del decostruttivismo e, purtuttavia, non si era mai cimentato in maniera diretta con il mondo dell’architettura; il secondo, da par suo famigerato e similmente disavvezzo al mondo della filosofia, bruciava già le tappe che lo avrebbero condotto, qualche anno più tardi, al prestigioso Premio Wolf.
Dacché, quando a entrambi fu proposto di co-operare alla costruzione di un giardino per il Parc de “La Villette” a Parigi, il bizzarro progetto non poté non attirare il disappunto dei fondamentalisti dei rispettivi settori, tirandosi addosso le sperticate polemiche dei conservatori e le derisioni dei puristi da poltrona de “Les Deux Magots”.
Agli occhi del filosofo francese, in effetti, l’architettura rappresentava nientemeno che «l’ultimo baluardo della metafisica: l’arte che resiste di più a ciò che si chiamerebbe destabilizzazione o decostruzione, perché è l’arte meglio fondata». Indifferentemente dalle altre istituzioni occidentali, anche la “cultura dell’appropriazione”, la “scienza archetipica della tectura”, era per Derrida un coagulo di pregiudizi, di blocchi pregiudiziali; ad essa era imputabile l’agglutinamento attorno a un gigantesco “constructum”, a una “archi-struttura” di fondamenti canonici e gerarchici – abitabilità, funzionalità, monumentalità ed estetica – in grado di influenzarne la pratica corrompendola irrimediabilmente.
Considerate quelle riserve, per così dire latitudinali, urgeva dunque un punto d’incontro, un punto di follia, un tocco di follia: “Pointe de Folie – Maintenant l’architecture”, quasi a rispondere linguisticamente alle istanze ipotetiche di un linguaggio condiviso, di un linguaggio senza precedenti, fu poi il titolo prescelto per raccogliere i saggi, le testimonianze, le tracce di quella collisione destinale irripetuta. Quel “tocco di follia” avrebbe dovuto innescare l’“adesso” (maintenant) dell’architettura – e del design in quanto seconda persona della sostanza unigenita dell’architettura –, un’“ora” diacronico che rifugge l’essere grecamente inteso come “presenzialità”, che è diacronia, unità decostruita, architettura dell’evento, della non-saturazione e dell’incompletezza, prassi pensante dell’apertura, del “mantenimento” (maintenant) che è superamento delle ipostasi, delle assolutezze, dei fanatismi.

La filosofia dell’architettura, figlia di una chiamata telefonica, e di una chiamata che oserei definire “ancestrale”, non è che una “fenomenologia del futuribile”: la suggestione di un’architettura e di un design toccati dalla follia lucida della critica filosofica, di una ragione poetica perennemente tesa tra le estremità del “maintenant” derridiano, di un’esperienza non-puntuale, ritardataria, genuinamente convissuta.

La prima stagione della “filosofia dell’architettura”
Lo stato dell’arte della nostra disciplina risiede tutto in questa particolare bisemia: nella regione compresa tra l’“adesso” e il “mantenimento”, tra “tempo” e “temporalità”, tra “parola” e “concetto”.
La filosofia dell’architettura è la coscienza critica di un’esperienza di frontiera, di un esser-ci nell’intersezione, nell’intermezzo, nell’interstizio pulsante fra il cuore della teoria e il polmone dell’azione.
La filosofia dell’architettura, prima di pretendersi una scienza o un’arte, è invero una condotta esistenziale. Una condotta che muove dall’intento di decostruire l’“artefatto” dell’architettura e del design alla luce delle idee di traccia, scarto, temporalità differita, rinvio, transumanza. 
Ma dove ci ha condotto questa condotta? Su quali vie? Per quali sentieri? Più in là delle categorie tradizionali, nel fuoco degli esistenziali del pensare e dell’agire, cosa ha infiammato la nostra ricerca da argonauti, da medici del tatto, da formatori di mondi, da uomini dell’oltre?

Dalla margheriana esperienza dell’incompletezza, della non-saturazione, dell’esorcismo della spaesatezza, ci siamo imbarcati per mari tematici, oltrepassando vette asperrime, discendendo le ripide forre dell’Alcantara, diradandoci nelle breriane isole della vicinanza. Al di là della fredda fisica della prossimità, siamo volati di là dal continente, fino al sole zenitale delle Lofoten, navigando intrepidi tra i ghiacciai e i divieti, pescando merluzzi oltre le colonne d’Ercole, ricette e triangoli nella Serena che non mente. Nella sua culla, sui moli calcinati della Giudecca come nella Parthenope giudea di un sogno d’eccedenza, abbiamo ripensato l’arredamento “altrimenti”, nella spaziatura congiunturale e disgiuntiva dei mosaici caleidoscopici, nelle mire alte e frammentate di quegli estranei che noi stessi siamo. Viventi, in rada tra l’assillo animale e il bisogno di salvezza, ci siamo scoperti bestie analogiche ed essenti conviventi che comunicano per mezzo di un’astrusa parola digitale, nel design dello “spazio estetico dell’incontro”, nella parola materica del rispetto, della natura vissuta, nel vissuto segreto e nobile della spontaneità. A seimila miglia dalle coste urbane di Col di Lana, sulle autostrade di glicine della Provenza, abbia inforcato il giardino puntinato dai raggi della calorosità, dalla convivialità dell’incontro innocente, del diversivo di battigia, del siciliano divertissement che tutto travolge e disvela, salsedine siderale, polvere d’arenaria. Come polvere, come polveri gravitanti nello scarto, calcinati dall’autismo della verità, abbiamo tracciato passo passo, scoglio dopo scoglio, faraglione dopo faraglione, la nostra rotta circolare tra le grotte millenarie della storia mediterranea: storia di avventurieri, poeti, divi e viveur di piazza, tra le ampie piazze del canto e lo stretto impensabile, vicolo di marea, vita dolce, Stretto indispensabile che si affaccia sul vuoto. Architettura della filosofia, filosofia del vuoto, vuoto della filosofia-architettura: il nostro è il titanismo della resistenza, il canto calcinato dalla precarietà – della precarietà di un’impresa a due voci. Voci senza lingua, linguaggio metalinguistico, eroismo in tre versi, haiku della naturalezza: coscienza etico-politica, politica orientale del viluppo, dell’appartenenza, casa della città. Città di gemiti e ansietà, comete erotiche di indiana reminiscenza, sapienza tantrica che tace gemendo, memorabilia di carta da parati, erezioni roride e preveggenze in pillole: voglia di sapere, voglia di costruire, voglia di amare: philosophía (φιλοσοφία).

Che viaggio, il nostro: viaggio da odissei, da architetti-filosofi, da menestrelli della fabula, da narratori del design (design tellers)!
Ci ri-chiediamo: “Lo spazio è – realmente – il luogo d’incontro tra filosofia e architettura?”
Signor sì! Di una filosofia che non voglia presidiare il tempo e di una architettura che non voglia presiedere lo spazio, però!
Filosofare architettando non significa appropriarsi dello spazio-tempo; significa, piuttosto, abitarlo: abitare l’archi-testura, la spaziatura, la commessura, la realtà dell’alterità.  Realtà del tocco, del tatto, della “palpatio” – la nostra: uno sguardo circolare e vergine che preferisce la sacralità alla definizione, la spaccatura alla conciliazione.

La filosofia dell’architettura vive nel romanticismo dell’irreversibilità, nella valanga della durata, nella bellezza naturale dell’incompiutezza.
Siamo figli di una chiamata.
“Vincenzo, dove ci incontriamo?”
“Davide, nel punto di follia!”