“Agli architetti, The Brutalist non è piaciuto.”
Questa è stata una delle prime (e tra le ultime) considerazioni circolate sul film di Brady Corbet, scritto insieme a Mona Fastvold e uscito nelle sale italiane il 6 febbraio 2025.
Si sa, gli architetti sono maniaci del dettaglio, intransigenti verso ogni incongruenza progettuale. E quando un film osa raccontare l’essenza di un intero movimento architettonico, le aspettative crescono esponenzialmente. Ma il cinema, come l’architettura, è una forma d’arte, e non esistono assiomi assoluti per definire il “bello”. A giudicare dai riconoscimenti ricevuti, però, The Brutalist sembra aver convinto critica e pubblico: tra le nominations agli Oscar spiccano miglior film, miglior regia (Brady Corbet), miglior attore protagonista (Adrien Brody), miglior attore non protagonista (Guy Pearce), miglior attrice non protagonista (Felicity Jones), miglior sceneggiatura, miglior fotografia (Lol Crawley), miglior colonna sonora (Daniel Blumberg), miglior scenografia (Judy Becker) e miglior montaggio (Dávid Jancsó). Inoltre, ha conquistato il Leone d’Argento per la regia alla Mostra del Cinema di Venezia e i Golden Globe per miglior film drammatico, miglior regia e miglior attore protagonista.
Anch’io attendevo l’uscita italiana con grande hype, ma anche con un leggero timore. Perché, inutile negarlo, l’unico vero interrogativo prima di entrare in sala è sempre lo stesso: ma quanto dura il film?
Ecco, The Brutalist dura tre ore e trentacinque minuti. Ma, cinematograficamente parlando, sono state tra le più affascinanti degli ultimi anni, almeno per me, sin dal primo minuto: il film si apre con l’immagine della Statua della Libertà rovesciata (chissà chi mi ricorda!). Per me è stato subito amore.
La storia è quella di László Toth (Adrien Brody), un architetto ungherese di origine ebraica, allievo visionario del Bauhaus, che emigra negli Stati Uniti con la moglie Erzsébet (Felicity Jones) nel secondo dopoguerra. Qui incontra il potente imprenditore Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce). Inizialmente, Toth si guadagna da vivere realizzando per lui una sala dedicata al piacere della lettura, ma quando il magnate scopre la sua genialità, gli commissiona un Community Center dedicato alla madre scomparsa. Da quel momento, l’architetto si scontra con le frustrazioni e i compromessi imposti non solo da Harrison, ma anche da una società restia ad accettare visioni avveniristiche e rivoluzionarie.


L’opera di Corbet, però, non è solo il racconto della disillusione di un uomo e del suo sogno americano, ma anche quello di un’idea architettonica che si misura con il contesto sociale e politico. Il Brutalismo, in questo film, non è solo estetica, ma simbolo di un’epoca, riflesso di un’ideologia, specchio di una lotta interiore tra il desiderio di purezza espressiva e la realtà del potere economico.
Il titolo del film è già una dichiarazione diegetica. The Brutalist è, ovviamente, un riferimento al Brutalismo, una delle correnti architettoniche più controverse del dopoguerra, nata dall’esigenza di ricostruire le città devastate e di creare spazi urbani accessibili, funzionali, privi di ogni decorazione superflua. Il termine béton brut (cemento grezzo), da cui deriva il nome del movimento, fu coniato da Le Corbusier per descrivere il materiale con cui realizzò opere come la Unité d’Habitation di Marsiglia. Tuttavia, il Brutalismo come lo conosciamo prese forma grazie agli architetti britannici Alison e Peter Smithson, fautori di un’architettura essenziale e collettiva.

Il protagonista László Toth è un personaggio di finzione, ma Corbet ha dichiarato di essersi ispirato a Marcel Breuer, architetto e designer ungherese legato indissolubilmente alla scuola del Bauhaus. Breuer, come Toth, emigrò negli Stati Uniti, dove realizzò alcune delle sue prime opere brutaliste, tra cui la storica sede del Whitney Museum of American Art a New York e il Murray D. Lincoln Campus Center all’Università del Massachusetts.


Il film omaggia il suo lavoro anche attraverso il design: László, infatti, progetta arredi che ricordano la celebre sedia Wassily, creata da Breuer ispirandosi al design delle biciclette.
La monumentalità delle strutture brutaliste divenne, nel tempo, un vero manifesto del ’900, incarnando il rifiuto dell’effimero, un’esasperata attenzione alla funzione e un’esaltazione della materia nella sua crudezza. Il cemento a vista e le superfici grezze non erano solo soluzioni costruttive, ma veri e propri statement estetici e ideologici. La verità è che l’architettura (come forse il cinema) non è mai neutrale, e il Brutalismo men che meno perché incarna un linguaggio che parla di funzionalità e resistenza; non aspira ad essere bello nel senso classico del termine, ma ad imporsi come una verità strutturale. Le sue forme imponenti e l’uso massivo del cemento non sono semplici scelte stilistiche, ma dichiarazioni politiche: un rifiuto delle frivolezze decorative, un’affermazione dell’onestà costruttiva.
Ecco come negli anni ’60 e ’70 il Brutalismo viene adottato per edifici pubblici che incarnano i valori della società moderna quali scuole aperte a tutti, municipi come simboli di democrazia, università accessibili. Eppure, col passare del tempo, questa stessa estetica inizia a essere sempre più associata a degrado e alienazione, fino a diventare il bersaglio di un diffuso pregiudizio culturale, insomma un marchio populista.
Il film The Brutalist riesce a tradurre questa logica architettonica in linguaggio cinematografico. La fotografia di Lol Crawley sfrutta geometrie rigorose e giochi di luce e ombra per amplificare il senso titanico di isolamento. Il film è costruito su piani scultorei e inquadrature che incorniciano i personaggi in spazi imponenti e opprimenti, dando la sensazione di essere intrappolati dentro un’opera di cemento. La freddezza del Brutalismo non è solo visibile, ma si avverte in ogni scelta visiva e sonora.




Il suono gioca un ruolo essenziale, è fatto di echi metallici e riverberi profondi, in grado di rendere ogni passo un rintocco nel vuoto. Il montaggio è secco, spietato e riflette la brutalità di un’epoca in cui l’utopia modernista si scontra con la realtà del potere. La scenografia di Judy Becker fa del Brutalismo non solo un elemento visivo, ma narrativo: i personaggi si muovono in spazi che li sovrastano, inghiottiti da costruzioni più grandi della loro stessa esistenza.

Ma cosa, esattamente, non è piaciuto agli architetti? Forse la rappresentazione stessa del Brutalismo. O forse il modo in cui la pellicola non si limita a usarlo come sfondo, ma lo trasforma in un mezzo narrativo capace di tradurre un’utopia in un’opera che ne evidenzia tanto la grandezza quanto il fallimento. Oppure, più semplicemente, è la conferma che il Brutalismo, con la sua lettera scarlatta, continua a dividere e a far discutere, oggi come allora.
Personalmente non ho visto The Brutalist come un semplice film sull’architettura. Lo definirei piuttosto un manifesto, architettonico e cinematografico allo stesso tempo. E a rivelarlo, secondo me, è proprio il finale: una chiusura estremamente politica e intellettuale, ambientata alla Prima Biennale di Architettura di Venezia del 1980, dove László Toth arriva ormai anziano. Ma più che l’uomo, a giungere è il suo messaggio, il lascito delle sue architetture (soprattutto quella più agognata). Ed è solo a questo punto, dopo quasi quattro ore di film, che emergono con chiarezza i temi dell’Olocausto, del trauma e del riscatto. Un messaggio potente, che si fa beffa del capitalismo americano, dei totalitarismi e degli abusi di potere e lascia il suo segno definitivo proprio lì, sotto quella Statua della Libertà, rovesciata.
Cover photo credits: ©A24