Nel 1521, dopo una dura lotta, Hernàn Cortès conquistò la città di Cuauhnahuac, capitale degli indiani di Tlahuicas e, da tempi remoti, meta di villeggiatura degli imperatori aztechi per il suo clima mite e per la vegetazione fiorente. Carlo V gliela concesse in feudo e costruì al Conquistador un grande palazzo dove tutt’ora ha sede il governo cittadino di Cuernavaca, eufonico nome che gli spagnoli diedero alla città dopo la conquista.

Cuernavaca, distante una novantina di chilometri da Città del Messico, è una città ricca di storia, testimoniata tanto da eredità spagnole, come il Palacio de Cortès, quanto azteche, come il sito archeologico di Teopanzolco. Ma le sue ricchezze architettoniche non si limitano al passato: proprio di fronte alla zona archeologica, nel 2017 è stato completato il Centro Cultural Teopanzolco, su progetto dall’architetto Isaac Broid con lo studio Productora, entrambi messicani e vincitori di un concorso a inviti bandito dallo Stato di Morelos, di cui Cuernavaca è capoluogo.

Con il Centro Cultural Teopanzolco l’amministrazione locale ha voluto costituire un collante tra i quartieri poveri e quelli d’élite, affidando alla cultura, quindi, il ruolo centrale di catalizzatore per il progresso sociale.
Gli architetti hanno deciso di progettare il centro dialogando continuamente con il sito archeologico, a partire dal fatto che l’asse di simmetria del tempio principale è centrale rispetto all’ingresso all’edificio, nel blocco triangolare minore, che diventa un cannocchiale sull’area archeologica.

Inoltre, proprio come i templi aztechi nelle vicinanze, l’edificio sorge da un basamento, da cui emergono i due volumi di pianta triangolare e al cui interno sono state inserite tutte le funzioni pubbliche come il bar, la biglietteria, il guardaroba, i servizi e l’auditorium da 820 posti a sedere.

Il dialogo con le preesistenze si manifesta anche nella irregolare forma di questo “crepidoma”, che oltre ad assecondare le curve di livello del terreno e i vuoti urbanistici dell’area, accoglie i grandi alberi già presenti in loco inglobandoli nei patii del piano inferiore, uno dei quali, scavato nel terreno, crea una sorta di piccolo teatro all’aperto. Le gradonate del basamento proseguono diventando copertura dell’auditorium e offrendo una vista panoramica su tutta la zona archeologica, ulteriore spettacolo oltre a quelli rappresentati nella sala sottostante.

Anche la copertura della zona di ingresso è triangolare e gradonata, ma sale in direzione opposta a quella dell’auditorium: in continuità con il territorio montuoso del Messico, che si ritiene abbia ispirato la forma delle piramidi azteche, l’edificio si inclina e diventa un’estensione del paesaggio che lo circonda.

Le aperture dell’atrio principale, come il resto dell’edificio, sono prive di vetri, connettendo direttamente tutti gli ambienti interni con l’esterno.

I materiali utilizzati sono legno, corten e, soprattutto, calcestruzzo a vista: si tratta di materiali con bassa necessità di manutenzione e che richiamano cromaticamente e idealmente le rovine. Come tante altre scelte progettuali, anche l’utilizzo del calcestruzzo pigmentato è in piena continuità con il passato messicano, ancorché recente, inserendosi nel solco di quella tradizione architettonica caratterizzata da un’espressività plastica a volte potente e a volte sognante, ben visibile nelle opere di grandi architetti messicani del secolo scorso come Teodoro González de León, Ricardo Legorreta e, mio architetto preferito di sempre, Luis Barragàn.

Photo credits ©Jaime Navarro