Che quell’incommensurabile fiume di metafore a noi noto come “mondo” trabocchi di forme è, almeno negli argini della geometria lineare, flusso di pensiero facilmente toccabile, sorgivamente testimoniabile dal campionario vivo dei luoghi della sensibilità, per mezzo di quelle umane sensibilità e intelligenza che, dei luoghi, sono soffio vitale e ordinamento logico, armonia generale, raison d’être.
Che le forme, però, possano sfuggire alle affatto limitate facoltà razionali di confinamento all’interno di categorie è, altresì, assunto ben noto tanto ai filosofi quanto agli architetti i quali, analogamente, sono alle prese con il cimento dell’incontenibilità, dello strabordamento, della meta-dimensionalità, del caos.
Al di là e al di sopra delle dimensioni euclidee, della classificazione, della differenziazione, regna infatti il primigenio sovrano dell’indeterminazione, dell’eccedenza, della sacra informità, nientemeno che Cháos (Xάος), il dio del disordine cosmico, dell’eccesso erotico dello spazio.
Di eccesso ed erotismo, dell’eccedente erotismo che pervade ogni forma conosciuta, e persino quelle a noi ignote, quelle innominabili, ne sapeva per certo qualcosa il dio Dioniso (o Bacco, per gli epigoni latini), mattatore dei Baccanali (in gr. τὰ βακχεῖα; in lat. Bacchanalia), presidente presidiante i riti iniziatici classici, anticlassici per inclinazione e costumi, costumati di pelle e inclini alla naturale incontrollabilità delle forme dell’ebbrezza, della creatività, dell’estasi della creazione suprema, di quella che, per dirla con Baudelaire: «di certe idee, di certe voglie, di certi desideri, di certi progetti, di certi bisogni, di certi incontri», non può non amare la prepotenza, non può non fondersi ad essa, incorporarla, succhiarne la potenza pre-formale, primaria, primitiva.
Di primitività, di irresistibilità, di forze anarchiche e imperversanti, perennemente sospese nell’intermondo gravitante tra empietà e divinità, fra edonismo e aponìa, in effetti, sono costellati i picchi della saggezza universale, nella carne delle bibliche controversie di quella summa roboris – di quella corografia intorno alla forza e al desiderio  che è la Genesi,  come nel solco delle lotte etiche e delle battaglie sessuali del Kamasutra (कामसूत्र), la sanscrita coreografia delle posizioni morali, delle prodezze acrobatiche della passione; pas de deux fra amanti in quanto danza del benessere, profilassi contro le purulenze del mondo formato, di quello materiale; panacea che unisce, appassiona, consacra, libera.
Anche in tema di libertà, ad onor del vero, il tanto vituperato Bacco (alias Liber) era un leader dell’opinione, un affrancatore dei costumi, un emancipatore di uomini e donne senza distinzione di genere e orientamento: con i suoi Liberalia, ha avuto il merito di abbattere i muri del pudore, della pudicizia, del pudico incasellamento nel ghetto del bigottismo, della spaziatura del collotorto, del disegno spaziale petit-bourgeois.
Ridisegnare lo spazio, riassegnare valore all’ebbrezza multiforme del desiderio, rifondare l’eccesso erotico del bello e del libero sono, a ben guardare, le mosse combustibili da cui il progetto di oggi ha preso i suoi inizi e i suoi sproni. Tra sproni e speroni, con pervicacia itifallica e potenza plastica, da qualche tempo, va baluginando la stella vogliosa e prepotente di cui andiamo narrandovi, la nuova cometa a luci rosse del firmamento milanese dell’intrattenimento erotic-chic, addensamento urbano a cavallo tra Porta Venezia, Pigalle e l’Eden.

Voglia: le forme del dionisiaco

Ci giunge voce che, nel proprio giardino proibito di via Panfilo Castaldi, una novella Arianna abbia generato un astro danzante, una figlia soffusa del caos: Voglia.
Voglia, di là da facili retoriche nominali, è ben più che una voglia istintuale, una pulsione di cattivo taglio, essendo piuttosto l’abito scelto da Persefone a misura dei suoi bisogni più intimi, più informi, più caotici: essendone, in fondo, il luogo per essere, del pieno essere, dell’appagamento della sua propria interiorità, essendo il tempio del suo proprio benessere.
Come arguito da Kama, cuore edonistico della tetrarchica sostanza indiana, in effetti, la libertà non è che piacere e, di piacere – inteso come elevazione relazionale più che come appropriazione autistica – va sostanziandosi la nostra rispettiva ricerca di concetti, di idee, di forme, di passioni. La sessualità – stando essa al corpo come l’architettura sta alla casa – è, essenzialmente, un nutrimento: nutrimento dell’abitare e dell’abitarci, del piacere e del piacerci, è un ponte di carne e di significati in grado di connetterci e accoppiarci in un più ampio e profondo orizzonte di senso.
Feed the passion, ci esorta Persefone. Nutrire la passione in quanto carburante della nostra macchina immaginativa: esiste forse monito più terreno? Più sublime?
Non v’è nel “terreno” neanche un argomento contro l’affermazione del più originario degli spazi, nell’unico che ci appartenga propriamente, nel corpo da encomiare e dissacrare, nella mela proibita da coltivare in quanto frutto di quel paradosso alato che noi stessi siamo.
La passione è il sale della terra, e Persefone ne è al corrente.
Che Voglia, poi, sia mossa da una grande passione, da una passione lacerante che boccheggia alla ricerca di ossigeno e forma, di una forma che la abbozzi senza contornarla, che la insuffli senza intubarla, ebbene, risalta a tutta prima, sin dal suo acchito graffiante, dall’accesso nel suo varco di candore e depravazione. Tra il sacro e il profano, nelle spire avvolgenti delle tende vaginali che sormontano il visitatore esortandolo all’ingresso, all’apertura, all’abbraccio, alla penetrazione fin dentro gli stipiti carnosi delle porte del miracolo e che seminano semenze in ogni landa, in ogni labbro d’ombra dell’ambiente arcano, va languendo l’invito a mezza bocca di Persefone, il suo sussurro da baccante, la plastica lascivia del suo lasciapassare, il bacio delle labbra creaturali.

Le mollezze di Afrodite, amabilmente ritratte dalle diapositive corporeizzate di newtoniana memoria che campeggiano lungo le pareti destrorse e dietro ai banconi marmorizzati adibiti ai profluvi alcolici di misteriosi fattucchieri dell’allegria, sono tratto distintivo del gioco di ri-tensione e pro-tensione, di richiamo e di presa, di illusione e di trasparenza, di velamento e di dis-velamento. Nel gioco del velo, nel basso ventre fremente di danzatrici del ventre in déshabillé e architette-filosofe del bondage vibratile del movimento, si muovono gli animi dei visitatori, fiancheggiati, alla propria sinistra, dal promemoria sanscrito-londinese della carta da parati bicolore: rosa color dell’epidermide, rossa color dell’epidermico reclamo del vizio, profetica magna carta della deflorazione dell’oscurantismo.
Nel diversivo della cena, nelle ceramiche declamanti il peccato scarlatto, il pasto originale, l’origine di tutte le passioni, va pulsando lo spettacolo di prestidigitazione della Persefone Circe, sirena che attira i naviganti dell’erotismo, gli ulissidi marinai risucchiati dal canto della femminilità, dal gorgo di velluti, dalle stanze stregate dalla melodia vellutata della privatezza, della privazione, della vista rinnegata, dell’erezione rorida di gelati cremosi e porte semiaperte, divaricazione parziale, parzialità ottica che rinvia all’oltre, alla culla luciferina della concupiscenza, al catafalco segreto, al letto su cui giacciono gli utensili della perdizione, i castigatori del pregiudizio.
Per azione del priapesco vessillo emancipatorio che svetta sui tappeti e si stacca da terra, staccandosi dalle mura nude e dai dagherrotipi di nudi che cospargono le cinte del sancta sanctorum di Voglia come un unguento, cade così la cinta del buonismo e la biancheria sporca della civiltà del consumo.
Voglia rappresenta, in questo senso, una ventata di spiritualità. Contro le abbacinanti ipocrisie della società dell’uso, nell’umbratile simposio della naturalezza, va levandosi la potenza plastica della riqualificazione dello spazio e del corpo, del design e della politica, del gusto e dell’erotismo e nell’aria risuona, eretto e diretto, il controcanto di Dioniso, del dio dell’ebbrezza leggera, del ferace creatore del caos, del tracotante sacerdote della salute, del nobile paladino dell’espressione libera.
Nel gioco degli specchi di Voglia, le allodole annegano nell’oceano eiaculatorio di una verità che si rivela per quello che è: cangiante e “meta-forme”, gioia del crepuscolo, mito della caverna.
Agli organisti in tunica attenti ai vizi di forma, noi preferiamo i satiri in pelle, quelli che personano voglie con tirsi e scudisci.
La filosofia dell’architettura è, in fondo, una questione per danzatori, per sileni, per flautisti.
Voglia è musica per orecchi fini, assetati di abissi, messaggeri dell’Eros.