In un’era in cui la leggerezza metafisica invocata dal lirismo titanico di Kundera presta il fianco alla leggerezza inessenziale dell’utile, del consumabile, del superfluo, riscoprire lo spazio e il tempo in quanto forme trascendentali della sensibilità diviene, e per l’architettura e per la filosofia, un imperativo morale ineludibile, una missione alta e inaggirabile che riguarda direttamente l’uomo e, segnatamente, i suoi modi più propri: quelli del pensare, dell’agire, dell’abitare.
Karumi (軽み, “leggerezza”) è, per tutti i seguaci di Basho – per tutti i cantori-architetti, gli architetti-filosofi –, uno degli stilemi di senso dell’haiku, del genere poetico che è poesia della vita, vita della poesia, funzione esistenziale, incontro primario, voce ternaria, canto avito di un intero popolo. “Haiku” è l’espressione scabra quantunque ricca, ferace e primitiva, prelinguistica e albeggiante del concepimento, della custodia, del riparo che è da ascrivere alla bellezza e soltanto alla bellezza intesa come equilibrio, armonizzazione del caos, rifugio eletto lontano dal frastuono muto della società del consumo.
Machiya (composta da machi (町) – città – e ya (家 o 屋) – “casa” (家) o “negozio” – (屋) ) è la parola giapponese composta che meglio incorpora il dualismo semplice fra la solitudine essenziale e, appunto, il luogo dell’incontro: i suoi due kanji, in effetti, non fanno che contemperare individualità e socialità, agglomerandoli in una peculiare “architettura vernacolare” che rinvia all’aristotelica animalità dell’agorà, alla politica del negotium, alle gioie relazionali della piazza e, allo stesso tempo, al tepore segreto dell’intimità, alla dimensione indivisibile dei numeri primi che noi stessi siamo.
È proprio nell’humus profetico della libertà poetica, nell’architettura della spontaneità, nel gusto saggio per la nudità dei costumi, delle idee, delle strutture che, di là dall’opulenza aliena dei grattacieli cittadini, va costituendosi l’orizzonte di un éthos, quello giapponese, remoto benché vicino, genetico e visionario, futuribile perché primigenio, imperituro perché vulnerabile.
Nel fondo aureo della spaccatura – della crepa che non offende, della pena che non condanna, della traccia che illumina il cammino –, va in effetti depositandosi uno dei nutrimenti narrativi più preziosi della tradizione levantina, la porphyra, meglio nota come alga Nori (海苔), creatura dorata della frammentazione, del tritume, dell’essiccamento, appunto della spaccatura, metafora della condizione umana, nera e smeraldina a un tempo, magnifica risultante delle più disparate forze, degli onori e delle tribolazioni, del male e del bene.
“Nori” dai riflessi verdi, cartina traslucida dell’angoscia e della nascita, del peso piumato di una leggerezza robusta, sofferta, familiare. Nell’abbraccio della sua rete nero-cangiante sorge, in effetti, il maki: “maki” che è “machi”, che è sorgente concava del riso natìo, casa dell’accordo fra ingredienti, allegoria dell’artista marziale che fuoriesce nel mondo, alla ricerca del simile congeniale, dell’indipendenza dell’avveramento, dell’euforia gustativa, fedele alla morale etimologica dell’incontro.
Casa Nori: le radici della città nativa
È nel terreno dell’incontro che il protagonista di oggi – Casa Nori – affonda le proprie radici. Radici giapponesi, quelle tentacolari importate da Luca Gruttadauria attraverso la cultura “temaki” di stampo newyorkese, dalla Cina della dinastia Sung e in giro per il globo, fino all’ormeggio finale in Via Pollaiuolo 5, attracco zelante del quartiere “Isola”, porto sicuro dei nobili naviganti detrattori della pretenziosità.
Nell’innesto di Casa Nori, lungamente ponderato, originalmente congegnato da Luca e dai suoi soci, c’è, invero, tutto il mondo, tutto un mondo: il microcosmo orientale viene come screziato da un lampeggiamento d’Occidente che lo reinventa senza corromperlo; che lo proietta senza oscurarne il registro, senza ammutolirne il registratore altro, la musica sottile, tenue, amniotica della sua gestazione, della sua nascita, della sua crescita. Mediante la propria, di crescita, Luca è riuscito nell’impresa di salvaguardare l’intento germinale di una cultura, quella del “maki-machi” che è, in fondo, anti-occidentale per natura.
Se nell’insieme “anti-occidentale”, infatti, è possibile annoverare tutte quelle visioni che non si confanno all’establishment, alla storia dominante, quelle della “politica-nori”, della “cucina-nori”, della “casa-nori”, ebbene, non possono non rappresentare delle roccaforti di un sano, vivace, sincero anticonformismo.
Grazie al dispiegamento libero della propria creatività “oltre-occidentale”, “multilingue”, “multiforme”, Gruttadauria ha formato, architettato, foggiato, plasmato nientemeno che un tempio urbano, una “casa della città”: mediante i suoi “hand-rolls” come nei maki aperti, canali simbolici in cui defluisce il chicco archetipico impreziosito dal matrimonio di sapori e tradizioni, ha in effetti dato vita a un viatico, a una connessione, a un ponte. Lungo quello di Brooklyn e più in là della Muraglia, ha perseverato sul cammino accidentato della sperimentazione, della crasi, dell’accoppiamento: accoppiando legno, muratura e marmo, rielaborando il lascito marmoreo di Carlo Scarpa con le tessere irregolari del pavimento in gres porcellanato, laminando i suoi tavoli con l’insegna vinaccia del suo lògos cromatico, cementando la sua impresa con la possente armatura delle colonne portanti postindustriali.
Il canto di Casa Nori risuona, a ben ascoltare, proprio come un grido di rottura, come la sinfonia della rottura: della dorata apologia della vulnerabilità di memoria cinese, nella memoria bocconiana della rete in lamiera stirata, che cinge il solaio immaginario di Casa Nori, e nel quale si specchia la penisola nelle cui trasparenze gli ospiti e gli ospitati vanno confondendosi in una inedita prossimità di battigia, tra mare e sabbia, nello spazio dell’intesa come nelle crepe terree dei Kintsugi.
Nella sua “città nativa”, in quel tempio metropolitano che è “machi” e “maki”, dimora e negozio, città nella città, casa e cassa d’amplificazione di note provenienti dalle corde tese al taglio dei pregiudizi e delle distanze, Luca ha composto il suo canto arrangiando la base della sua propria spontaneità.
Come un haijin, nel suo caleidoscopico kabuki, ha messo in scena le stagioni della sua missione in tre atti, in tre versi, in tre lingue: dal West Village a Milano, passando per Kyoto, sulla via di Kyoto, ha doppiato la punta della sua personale El Dorado: una città d’elezione che sconfina nell’estasi del canto triplice, che trapunta l’origami dell’incontro, della leggerezza, della rivelazione.
La filosofia dell’architettura è l’avamposto dei samurai, dei saggi, degli spontanei.
Casa Nori è il belvedere dei sensei, dei giramondo, dei trovatori di tesori.