Lo scorso dicembre sono stata invitata ad Agrigento in occasione della quarta edizione di Countless Cities, la Biennale delle Città del Mondo promossa da Farm Cultural Park, che quest’anno si è posta un obiettivo ambizioso: ripensare il rapporto tra città, innovazione e inclusività.
Questa bellissima iniziativa, tra le tante, si colloca al centro di un più grande ed esteso evento quale Agrigento Capitale Italiana della Cultura 2025. Riconoscimento conferito alla città, tra le tante aspiranti italiane, per i progetti presentati e le iniziative prefissate che riguardano “Il sé, l’altro e la natura. Relazioni e trasformazioni culturali” e che indagano le relazioni tra esseri umani in una prospettiva di ciclicità pacifica tra uomo e natura.
Tutto bellissimo (sulla carta)
Splendide le iniziative che, con determinazione e dedizione, si cerca di portare avanti. Non è un impegno recente, sia chiaro; questo lavoro, frutto di passione incondizionata e sforzi silenziosi, è qualcosa su cui si investe da tempo. Se oggi riusciamo a scorgere persino le radici di questo cambiamento è perché qualcuno ha seminato senza clamore, senza pretese e senza fretta. E forse, almeno agli inizi, anche senza supporto perché nessuno scommette su un terreno arido, nessuno investe se non intravede almeno un piccolo segno di vita.
Eppure, è proprio da quel minuscolo germoglio che tutto può cominciare, lì dove chiunque vedeva il nulla.
In Sicilia però, purtroppo, di germogli solitari o, ancor peggio, di “cattedrali nel deserto”, ne abbiamo tanti disseminati per l’intero territorio e per quanta forza ed energia possa esserci ci sono luoghi che non possono cambiare “dal basso”; sono quei luoghi dimenticati e abbandonati dallo Stato e dalla politica italiana che ha evidentemente altri scopi di crescita e manovre di una economia circolare intesa tutta a modo proprio.
Personalmente ogni volta che visito Agrigento ho questa sensazione, questa volta condivisa anche dal mio compagno che mi ha accompagnata in questo viaggio e che ha potuto appurare con i suoi stessi occhi un capoluogo in depressione sociale e le sue province profondamente colpite da una desertificazione urbana e demografica.
In particolare, questa sensazione si è fatta strada nel momento in cui siamo arrivati ad Aragona, in uno dei più belli e, lasciatemi passare il termine, commoventi, padiglioni di Countless Cities dedicato alle “New Cities, built from scratch”.
Situato nell’Auditorium incompiuto di Aragona, questo spazio espositivo non è più soltanto un ecomostro ma un gigante buono, uno spazio timido, ingiusto e incapace di trovare, oggi, la sua natura contemporanea.
Eppure, l’organizzazione è stata in grado di ridare non solo una funzione ma anche un’anima, ha fatto rivivere uno spazio in abbandono, quasi sbagliato, dandogli respiro.
Sono tante, troppe, le opere incompiute sia nella sola Sicilia ma anche nell’Italia tutta. Sono opere rimaste a metà, a loro nessuno ha saputo ridare nuova vita. Sono spazi senza tempo, eterni “sarebbe potuto essere”, saranno il segno futuro dell’incapacità dell’uomo di dare una seconda possibilità.




Lì, in quell’incompiuta di Aragona ho avuto modo di venire a conoscenza (e di innamorarmi) di questo spazio espositivo curato da Analogique e Farm Cultural Park per Agrigento Capitale 2025, dedicato alle città di nuova fondazione in diverse parti del mondo.
Il padiglione esplora cinque progetti urbani visionari – Astana, The Line, Songdo, Forest City e Nusantara – che incarnano il concetto di città del futuro.
Quello che ci si chiede è se queste sono davvero utopie sostenibili o rischiano di diventare distopie mascherate?
Mentre visitiamo la mostra cominciano ad innescarsi in noi riflessioni profonde sulle dinamiche urbane globali e locali. Il progetto non si limita a esporre visioni futuristiche ma pone l’accento sulle città del futuro, costruite da zero, vendute come promesse ecologiche ma di fatto già in progetto con mille contraddizioni.
La narrazione si concentra su modelli urbani progettati per affrontare le sfide contemporanee: cambiamento climatico, greenwashing, sovrappopolazione e scarsità di risorse. Ogni città rappresenta un approccio radicalmente diverso.
Astana (Kazakistan): il simbolo del modernismo post-sovietico, con una pianificazione urbana che alterna monumentalità e avanguardia tecnologica.

The Line (Arabia Saudita): un esperimento audace di urbanizzazione verticale, concepito per eliminare l’espansione orizzontale e preservare l’ambiente naturale circostante.

Songdo (Corea del Sud): la “smart city” per eccellenza, un laboratorio di tecnologie integrate che promette efficienza e connettività a livelli mai visti.

Forest City (Malesia): un modello di urbanizzazione green che combina architettura futuristica con rigenerazione ambientale.

Nusantara (Indonesia): il progetto di una nuova capitale sostenibile, che intende alleviare la pressione su Giacarta e fungere da faro per lo sviluppo ecologico.

Di nuovo, tutto bellissimo (sulla carta)
Attraverso installazioni, video e immagini, il padiglione invita i visitatori a esplorare le potenzialità di questi progetti, ma anche a interrogarsi sulle loro criticità. Questi scenari saranno davvero il nostro futuro modo di vivere? Saranno davvero sostenibili, inclusivi e replicabili? Oppure rischiano di esacerbare le disuguaglianze, creare ghetti tecnologici e urbani e alienare i cittadini dal contatto umano e dalla natura?
L’invito è quello di riflettere su come le capitali futuristiche, ecosostenibilmente pretenziose e continuamente abusate da governi capitalisti, superino effettivamente i problemi ecologici e urbani odierni; a che prezzo sociale e con che compromessi urbani una città può trasformarsi per essere effettivamente certi di aver cambiato l’attuale rotta?
Pensare al futuro dell’essere umano su un tavolo tecnico con un foglio bianco davanti e riempirlo con tutte le più belle idee smart e high-tech rischia di diventare una distopia, sociale e ambientale: il controsenso del buon vivere.
Scenari, questi, che ci spingono a immaginare e progettare un futuro più inclusivo, in cui le città siano davvero fatte per le persone e l’ecosistema e non il contrario. Non abbiamo bisogno di un bellissimo contenitore verde per mettere dentro tutto e un frullatore ipertecnologico grande abbastanza per mescolare assieme tutti gli ingredienti che rovesciamo dentro questa insana distopia.

Immersi così tanto in questa visione futuristica usciamo dall’auditorium pieni di dubbi, anche un po’ arrabbiati (per quanto mi riguarda). Ci ritroviamo di nuovo catapultati nella realtà dell’entroterra siciliano e subito mi viene in mente questo paradosso assiale tra le città che invecchiano rimanendo uguali a se stesse, si autodistruggono a livello sociale e demografico per timore (non il loro, sia chiaro, si parla sempre di chi sta più in alto di noi) e quelle che invece tentano di cambiare tutto, affinché nulla rimanga uguale a se stesso (forse perché la paura di rimanere incartati in sogni troppo tangibili è più grande del provare a buttarsi verso l’ignoto).
Ma dove si pone esattamente l’ago della bilancia? Esiste veramente un punto di equilibrio tra i due antipodi, questi due modi di vivere che, spoiler, alla fine ci (auto)distruggeranno?
Cover Photo Courtesy ©NEOM