Entrare in uno spazio illuminato da Francesco Murano significa entrare in un racconto silenzioso fatto di ombre, barlumi e sfumature.
È il caso delle grandi mostre di cui ha firmato l’illuminazione: Monet. Capolavori dal Musée Marmottan Monet (Padova, 2024), dove la luce accompagna la vibrazione pittorica impressionista; Botero (Roma, 2024), con toni più morbidi e volumetrici che valorizzano la sensualità delle forme; Dal cuore alle mani: Dolce & Gabbana (Milano, 2024), in cui l’illuminazione diventa parte della scenografia contemporanea; Antonio Ligabue. La grande mostra (Bologna, 2024) dove la luce restituisce l’intensità emotiva delle cromie dell’artista, fino alla più recente M.C. Escher al MUDEC di Milano (2025), quest’ultimo percorso immersivo dove il gioco tra luce e ombra amplifica la vertigine percettiva delle sue geometrie impossibili.
In ognuna di queste esperienze, la luce non è solo ciò che permette di vedere, ma ciò che costruisce la percezione stessa dell’opera, trasformando la visione in emozione.
In merito all’approccio dell’architetto e light designer Francesco Murano leggi anche: https://www.atmosferamag.it/francesco-murano-lighting-designer-art-exhibitions
Tre livelli per leggere la luce
Per Murano, docente al Politecnico di Milano e punto di riferimento internazionale del lighting design museale, la luce è una grammatica da imparare e interpretare. Il suo metodo si fonda su tre livelli strettamente connessi: il primo, che lui definisce “ortografico”, riguarda la corretta illuminazione dell’opera: evitare riflessi, ombre o distorsioni che possano comprometterne la leggibilità; secondo è “sintattico”, e si riferisce alla relazione tra le opere e lo spazio che le ospita. In una mostra, infatti, ogni luce dialoga con le altre e contribuisce a costruire un racconto complessivo. Infine, c’è il livello “stilistico”, quello più personale e riservato, in cui la luce diventa strumento di lettura da parte dell’artista e trasposizione delle sue intenzioni.
Nel raccontare il Perseo trionfante di Canova a Palazzo Braschi, Murano spiega come inizialmente avesse scelto una luce laterale e decisa, ma poi l’avesse ammorbidita per rispettare la purezza e la compostezza neoclassica dell’opera: «il mio compito non è prevaricare, ma restare un passo dietro l’artista», afferma.

La luce come mestiere e scoperta
Dalle sue parole non può che emergere un principio su tutti: la luce è un mestiere, non una formula scientifica. Ogni allestimento diventa così un laboratorio in cui osservare, sperimentare e correggere: un solo millimetro è in grado di cambiare radicalmente la ricezione di un’opera. Murano paragona, in effetti, il suo lavoro a quello di un artigiano o di un musicista: occorre infatti conoscenza tecnica, ma anche intuizione e sensibilità. È un mestiere che si impara facendo, manipolando la luce finché non diventa emozione.
Non è un caso che tra i suoi ricordi più intensi compaia l’illuminazione di un sarcofago a Menfi dove, grazie a un sistema di specchi, era riuscito a far emergere il volto scolpito di una fanciulla distesa sulla sommità: «è stato uno dei pochi momenti in cui la luce è stata docile», racconta. «Una volta tanto, ho vinto io!».
La luce viene sempre più vista come un fattore centrale ed emozionale dello spazio, leggi anche come altri designer l’hanno inserita al centro dei loro progetti: https://designtellers.it/light-design/sylcom-ci-regala-luce-che-si-sente-un-videoclip-sospeso-nella-luce


Tecnologia e sensibilità: un dialogo necessario
Convinto che l’innovazione vada accolta e guidata, Murano è stato tra i primi a sostenere il passaggio dai faretti alogeni ai LED, riconoscendone i vantaggi in termini di resa, durata e stabilità. In collaborazione con il Politecnico di Milano ha inoltre sviluppato sistemi di riconoscimento automatico delle opere, capaci di regolare la luce in autonomia. Non si tratta di sostituire il lavoro umano, ma di garantire qualità e coerenza anche nei musei più piccoli, dove spesso mancano risorse e tecnici specializzati.
In questo equilibrio tra tecnologia e tocco, prende corpo il cuore del suo pensiero: la luce può essere automatizzata, ma non emozionalmente replicata.


L’invisibilità come forma di bellezza
Per Murano, la luce perfetta è quella che non si nota. Quando lo spettatore esce da una mostra ricordando la bellezza dei quadri e non l’illuminazione, significa che il progetto ha funzionato. La luce ha fatto il suo lavoro, diventando linguaggio-medium invisibile tra l’artista e il pubblico.
In un’epoca dominata da immagini digitali, schermi e filtri luminosi, Murano ci invita così a riscoprire la profondità del vedere. La luce, nelle sue mani, non è solo ciò che illumina l’arte: è ciò che la fa respirare.

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