Dal latino accolligĕre, derivato da colligĕre (raccogliere), e dotato quindi di quell’“ad” tipico della tarda latinità, cursore di “ad-lontananze”, di avvicinamenti fra “io” e “tu”, nel giro della prossimità fisica e, ancor di più, nel segno della vicinanza coniugata al presente participio, come tutto ciò che è in cammino, in cammino verso la conoscenza, destinato al riconoscimento.
E quindi raccogliersi nel duetto politico dell’incontro, nel design spazio-temporale dell’appaiamento, costruzione naturale, eppure oltremodo faticosa, di un ponte fra individualità e alterità.

Accogliere, dunque, come “raccolta”, campionario delle differenze sul terreno della tensione conciliativa; accogliere come “raccoglimento”, anche: ovverosia come accettazione dell’Altro irripetibile benché simile, con-esistente da “ricevere dentro di sé”, accogliere appunto, col quale riunirsi nell’orizzonte immediato della presentazione.

Accoglienza – certo – come esperienza della differenza, luogo verbale, e nondimeno concreto, della multiformità diveniente del campionario vivente.

Accoglienza in quanto legame, nesso talvolta costrittivo, talaltre libero, sempre affettivo se per affettivo si intende – come mi sembra di sentire e comprendere – tutto ciò che ha che fare con l’accidentalità, con le ragioni di fatto che ci abbigliano, nostro malgrado, di finitezza ed eroismo.

Accoglienti perché transeunti – prigionieri dell’imperfetto –, ci agitiamo come canne al vento: il nostro posto è nell’altrove, nella residenza di tutto ciò che è possibile o dimenticato.

Accoglienza come coniugazione prima dell’essere-con-gli-altri, quindi: come anti-geometrico, religioso e scandaloso, salto nel vuoto – nell’irragionevole, ineluttabile, tragico rischio dell’inappartenenza.

In quanto designer e filosofi, filosofi del design, designer della “cosa” da cui si è designati poiché corpi, corpi spirituali verticali per tensione e orizzontali per socialità, che anelano alla terra dell’incontro, della reciproca accoglienza nell’inciso prononimico fra il sé e l’altro da sé.
Con Lévinas, l’esistenza – macrocosmo inevitabile in cui il design e tutte le forme del pensiero e della sensibilità vengono inscritte – è materia che scotta, che arde, che brucia come bruciano gli occhi dell’Altro su di me: media dell’accettazione, culminano nello sguardo terribile che è varco, luogo del raccogliersi, del riaccogliersi, del mutarsi, del posizionarsi nei rispettivi “posti” dell’ego.

Ma qual è, quindi, il posto del design? E come questo posto comunica con la filosofia? In che senso e in che modo, infine, questo singolare sodalizio riguarda intimamente l’uomo?

«Bounds that bind», risponderebbero dei sardonici sceneggiatori anglofoni, con l’intento neanche tanto surretizio di ambiguare la faccenda, ombreggiandola col contrassegno ambivalente del “vincolo”, quest’ultimo di volta in volta limite coatto o nodo autentico e inestricabile.

“Legami che legano” è, forse, anche il refrain del nostro editoriale di oggi, che vi parlerà del Bar Quadronno, storico bar nel cuore della “Vecchia Milano”, centro d’accoglienza e connessioni, bar dell’accoglienza perché risultante delle differenti forze dell’attrazione sociale, dei leganti del nugolo di rimembranze vivide e personali che annuvola ogni incontro, che precede ogni avvicinamento.

Quadronno: legami che legano

Legami che legano.

Canticchiando questo ritornello, mi addentro così nell’album ligneo di via Quadronno, nel bel mezzo degli amarcord del signor Colucci – felliniano rifondatore e custode delle gustose primizie del pioniere Faravelli – e la memoria presente e delicata di Giulia, promemoria pulsante del conservare e del tramandare l’ospitalità semplice e fiera del Colombo dei panini gastronomici e del nonno-guardiano, dal 1981, delle insegne dell’accogliere e del legarsi nella bellezza diveniente dell’attaccamento e del rinnovamento.

Eccomi all’interno, nello scrigno spazzolato dell’interiorità; eccomi avanzare con passi piumati, perché di piuma è il custodimento, l’accettazione ritornante dell’altro  specialmente nell’intermezzo salvo del pasto, del pranzo di salvia, dell’odor di camoscio prelibato  e diretto, eletto come l’evento stesso della vicinanza, dell’ “ad-coglimento” delle altrui pupille, nel raccoglimento delle papille baciate dalla bernese del nonno, nonno di Giulia, quel Colucci di Porta Romana che ristora e accoglie, essendo nonno di tutti, autore sottile di superbi manicaretti, pastore-ristoratore che saggiamente governa la responsabilità dell’ospitalità, la libertà dell’abbraccio tra i banconi rustici, nei tavoli di faggio, tutelati dagli ornamenti animaleschi, teste di parete, testa e cuore alla distesa d’abete, alle carezze che accendon le bocche e animano la festa.

Festa sensoriale da baita urbana, quella del Quadronno, tripudio di donne al comando, a onorare il nonno con il dono essenziale, col seme genetico dell’impegno e del bene, nel flusso indefesso del sesso materno, del senso paterno di esser genitore accogliente, scopritore fervente di ricette e formulette antiscolastiche a cavallo tra design e filosofia, nello scolo ibridato dell’utile e del volatile, del concreto e del metafisico, nello spazio fisico che lega e accoglie, che coglie e disvela la verità primaria dell’esser politico ed essente, esistente perché politico nel miracolo dell’arredamento che canta e l’idea che infiamma il dorso di uomini che mangiano in circolo, prossimi e vicini, figli della transumanza e della sedentarietà che è vicinanza, convivio e piazza, alleanza che spazza quietismi e indifferenza con leccornie che fan la differenza.

Il nostro bar è l’elogio all’accoglienza, la ricetta che plasma coi palmi, che tutti accetta.

La filosofia del design è un legame che lega.

Il Quadronno è un ricettario di “finezze per sottili”.


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