L’attenzione – scrive Simon Weil – consiste in una sospensione dell’atto del pensiero, nel lasciarlo aperto, disponibile, completamente permeabile all’oggetto: nell’essere a contatto con le cose al di là del metodo (méthodos), sulla via di una parola comune, sulla strada (hodós) del linguaggio.
La strada – come sia gli architetti che i filosofi più (o meno) avveduti sentono più che dedurre, non competendole la tecnica bensì il cammino – non è un metodo, essendo sprovvista di una tecnica ed essendo così, piuttosto, uno avvenimento dello spazio: una spaziatura.
Il metodo, per sua natura, è infatti una tecnica di appropriazione del problema più che una problematica esso stesso: l’esserci – l’essere-nel-mondo, l’essere spazializzati –, quello sì, è invece una problematizzazione, un’apertura, un progetto.
L’esistenza è il progetto di una spaziatura comune. Ed è anche una promessa.
L’esistenza, tanto per i filosofi che per gli architetti, per noi tutti in quanto uomini, è una promessa di attenzione.
Non che – si badi – il metodo debba venir meno, no di certo: insieme ad esso, in quel caso, verrebbe giù il colosso di saperi, valori e testimonianze che chiamiamo storia; non si può mica fare a meno delle proiezioni ortogonali, delle piante, delle sezioni, dell’assonometria: nossignore; non si può poi privarsi dei teoremi, dei prassemi, dei concetti come forme della filosofia dell’afferramento, della formalizzazione dell’esperienza, dell’ordinamento del tutto.
Si scongiuri il naufragio del metodo poiché senza il metodo naufragherebbe rovinosamente l’intero sistema della conoscenza e, con esso, tutti noi! Che diamine!
Tuttavia, c’è forse un luogo, un lieu – per dirla alla Mallarmè – che sia soltanto un lieu, semplicemente se stesso, una spaziatura di senso in cui l’interrogazione dell’architettura e della filosofia lascia spazio all’evento: all’evento rivelatorio del cammino.
Ecco, il cammino. La strada in quanto cammino propriamente umano verso il linguaggio, verso l’abitazione attraverso il medium della scrittura, talvolta dispositivo grammatologico talaltra geometrico, sempre bussola che punta in ogni dove, orientamento dell’uomo che si ritrova nel bel mezzo della “realtà del percorso”, del percorso labirintico metafora della costruzione che non si appropria, con i suoi progetti e i suoi concetti, della promessa cangiante e imperitura del divenire.
Spaziatura come attenzione al divenire e promessa di un divenire aperto, di un desiderio che si sa desiderio e che invoca la sacra libertà del caos.
Spaziatura come evento dello scrivere e dell’abitare.
Spaziatura come Torre di Babele.
A proposito di torri e di caos, come non srotolare la papirologica irrappresentabilità di Babele – torre e caos a un tempo -, divieto indicibile della divinità all’ambizione di altezza e affermazione degli ebrei, architetti-filosofi mancanti e manchevoli, luciferi ingabbiati nell’indigenza permanente della transumanza e dell’ineffabilità, prigionieri del divenire e del gelo.
Arditi per violenza definitoria e prepotenza verticalistica, quei figli di David si sono scoperti fallibili, nomadi, muti. Ardore e ardimento, arsura fino alla sete di acculturare, salire, dominare, ascendere fin sulla cima dell’architettonica universale.
Che cos’è, d’altra parte la metafisica se non l’architettura filosofica di tutto ciò che è, la pretesa totale di confinare il mondo e i suoi abitanti in un’infuocata immutabilità valoriale.
Filosofare e architettare sul rasoio della stilografica che disegna e non delimita. La nostra è la lingua dell’asintoto, il frattale di un interrogativo che scotta: che cosa significa abitare?

Scrivere è abitare

Scrivere è abitare.
Scrivere e abitare, eterozigoti sulla via di un sogno gemellare, partogeniti fecondi e infencondati nella morìa dell’intransitività, del transitorio scacco matto della mortalità, della romantica fatalità della spaziatura, di quello scritto auto-scrivente che noi stessi siamo; filosofi dell’architettura capovolti, ebrei spergiuri, costruttori – come Cnosso – del nostro stesso labirinto, progetti labirintici figli della gettatezza.
Progettare è infatti, come gli archetipisti prescrivono, “proicere”, e dunque “gettare avanti”, gettarsi in là, nel “là”, au de-là, guardare oltre per dar forma al mondo; ma progettare è, con Heidegger, anche “geworfenheit”, “gettatezza”, “essere gettati avanti” – nel mondo, nel “ci”, dasein – sulla strada irredenta della costruzione irrisolta, di una possibilità stringente, della stretta bifronte della libertà.

In nessun luogo
si domanda di te –
Il luogo, dove essi giacquero, ha
un nome – no,
affatto. Non giacquero lì. Qualcosa
stava fra loro. Essi
non videro attraverso.
Non videro, no,
ragionarono di
parole. Nessuna
si destò, il
sonno
calò su di loro.
Scese, scese. In nessun luogo […]

(Paul Celan, La stretta)

Con Celan, nella stretta allergica dello scrivere e dell’abitare – nell’ “a-topica” meraviglia dell’architecton aristotelico che si scopre uomo prima che filosofo, precario prima che messia della precarietà, titano della resistenza al di sotto della vanagloriosa illusione di Babele –, può allora rivivere, mondato della sua pretenziosità, il mito platonico del cavernicolo che non intende sovrastare il sole ma che, piuttosto, gli si pone di fronte: frontalità della ginestra alle pendici del Vesuvio, disseppellimento dell’evento del luogo nello spazio, della ragione progettante nella poesia della transizione, dell’incompiutezza progettante dell’incontro.
Perché «il luogo dove essi giacquero ha un nome»: il luogo dove noi giacciamo è il suo proprio nome, il nostro nome: nome di uomini, di nomadi, di funamboli  sulla strada di un cedimento, equilibristi angosciati sul filo rosso di Arianna, eroi anti-minoici del qui e dell’ora: dell’hinc e del nunc esistenzialmente intesi come i tratti progettanti di una doppia gettatezza, quella di un’identità esposta inscritta nell’essere nati e nell’esser stati resi liberi da una nomina, dalla traccia di un intreccio tutto da inventare.
Nominati dalle scritture, auto-progetti secolarizzati dell’architettare e del filosofare, abitiamo nella spaccatura, nella nobile accettazione di un crollo: eredi del tracollo di torri olimpiche e troppo poco elevate, apostoli della marginalità dello smisurato, annunciatori della realtà del percorso, ci situiamo nel rifiuto della totalità, nella ricerca inesausta della spaziatura dell’incontro.
Siamo martiri dell’attenzione.
Siamo architetti-filosofi.
Il nostro centro è dappertutto.


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