Sincretismo (dal greco synkrētismos, letteralmente “coalizione di Cretesi contro un nemico comune”) è vocabolo apparentemente inattuale, chiaramente de-semplificato rispetto alla presunta chiarezza (indistinta e facilona) dei moderni “fusione”, “assimilazione”, “mescolanza” ecc…
Perché, infatti, “sin-cretizzare” anziché “fondere”? Perché non cedere al fascismo monocorde e monospaziale della “conversione” in luogo di tale oscura e aliena nozione che pare masochisticamente preferire il “composito” al “semplificato”, l’“indifferente” al “sintetico”?
Che i popoli cretesi, frammentari e frammentati tanto nella politica quanto in fatto di gusto, potessero realmente accantonare la loro rispettiva proverbiale autarchia cedendo, cedendosi l’un l’altro e alleandosi, così, in vista di un fine più alto, di un bene comune, agli antichi non sembrava di certo meno improbabile. Eppure, quei famigerati scissionisti, quei vezzosi separatisti ben pensarono di farla finita, per una buona volta, riscoprendosi differenti ma identici, nell’essenza più che nell’involucro, nelle ampiezze libere della spaziatura più che nella costrizione granitica dell’omogeneità spaziale. Quel loro “sincretismo”, quell’ingegnoso e utilitario (benché non utilitaristico) federalismo di visioni e predilezioni sarebbe divenuto il loro araldo: la loro sarebbe stata una coalizione elettorale; o, meglio, bellica; tutto men che ideale e politica.
Il nobile trasformismo cretese, esempio sorgivo di convergenze parallele, e pratica ardita di “miscele” teologiche, filosofico-politiche e architetturali, avrebbe poi fatto epoca, insegnandoci il compromesso incorrotto tra le più disparate idee, tra gli stili più differenti, tra culture fra loro straniere e nondimeno alleate, manifestazioni eterogenee di un’umanità molteplice, del crogiolo pullulante che è il mondo, quella spaziatura che noi stessi siamo e nella quale comunichiamo – linguisticamente – interpretando e interpretandoci sotto diverse indoli, attraverso le più variegate forme espressive, con-essendo e coniugandoci, appunto, sincreticamente.
Sono di questa idea i fondatori di “Altrimenti Mixology Art” Paolo Urso ed Edoardo Casarotto, essi stessi autentica incarnazione del meltin’pot di esperienze, suggestioni e contaminazioni vissuto nel corso degli anni – tra l’Inghilterra e l’Italia, tra la swinging London e le verdeggianti acque borboniche (Paolo); lungo le fondamente e i rii della Serenissima (Edoardo) – mercanti e navigatori, creatori di fondamenta e fondatori di insiemi, insieme e coalizione etnico-creativa anch’essi in quanto scopritori di una spaziatura disgiuntiva e affermativa a un tempo, di una terra mista, del sovraindividuale paradossale arcano del “noi”.
Altrimenti, a scandire “altrimenti” e “con altre menti”, in modo diverso, alternativo, originalmente altero, i momenti dialettici della sintesi: quelli dell’affermazione personale, dell’allontanamento e, infine, del ritorno nella casa dell’universalità concreta, della propria casa.
La concretezza e la certezza del loro cosmopolitismo comune dell’incontro tra Urso e Casarotto si è sostanziata, meno di tre anni fa, in Altrimenti, in quella che, emblematicamente, nell’insegna del loro redivivo amor patrio, si sostanzia nell’ “arte della miscelazione” tipica della Mecca della “mixology”, e che fa della londinese armonia liquida di ingredienti e aromi lontani nientemeno che la materializzazione di uno stile del vivere, dell’imprendere, dell’architettare.
La loro attività, fecondata dall’unione delle loro rispettive inesauste attività all’interno del primordiale brodo poliglotta della capitale britannica, e di un inatteso intreccio di viaggi e visioni multisensoriali, è in effetti una singolare architettura di prospettive. Nato nel cuore di Brera, stiloso e profondo a un tempo, Altrimenti Mixology Art rappresenta evidentemente un omaggio alla filosofia inglese del design, del “food & beverage”, dell’ospitalità, pur non esimendosi dall’ardire, dall’innovare, dal “mixare” tendenze, retaggi, costumi enogastronomici nipponici e, naturalmente, nostrani alla “lingua nuova” del bere polisenso, nella terra di mezzo circondata da lingue intimamente differenti e non per questo meno comunicanti.
Sullo sfondo di questo crogiolo multilingue, attorno alla sciccheria oriunda del banco-cucina italo-nipponico a vista, il messaggio “altro” di Paolo ed Edoardo, il loro “altrimenti” risuona con elegante potenza tra le geometrie verticalistiche di richiamo art nouveau, personando la sua novità attraverso l’opulento minimalismo delle pareti art déco, vestite di tutto punto, con la loro londinesissima carta da parati blu-oro (espressione bicolore del loro sodalizio), con i suoi florilegi e le evoluzioni policromatiche irriducibili alle categorie lineari, a cullare i clienti con le loro mollezze ondulatorie, suadenti morbidezze figlie di un altro sincretismo: quello, appunto, tra il romanticismo naturistico dell’ “arte nuova” e dell’avanguardia modernistica di quella “decorativa”.
Nell’alleanza al velluto di Altrimenti – tra i velluti navy delle poltrone e il fulgore aureo delle lampade artigianali, di fronte alle macchie marmoree dei tavoli marezzati, tra le pareti in pietra e le porte lignee, ergendosi sulla superbia ritrosa delle moquette – si staglia poi il dettaglio raro della bottigliera ad albero di natale, eredità memore e traccia indelebile della facciata petrosa della “warehouse” dirimpettaia del loft londinese in cui Edoardo e Paolo erano soliti accatastare mobili e depositare sogni, costruendo – altrimenti – lo spazio aperto del loro futuro.
È proprio nella spaziatura della differenza, grazie all’incontro sincretistico di origini, esperienze e culture, che Urso e Casarotto, forti di “altre menti, di menti nuove”, sono riusciti a superarsi senza disperdersi: preservando le rispettive individualità eppure oltrepassandole nella dialettica dell’incontro positivo, del dinamismo alchemico della metamorfosi. L’architettura della loro filosofia non conosce, in effetti, discriminazione alcuna: il loro rinnovamento è incapace di distruzione; la loro energia non ambisce che alla trasformazione; i loro elementi in movimento si compongono e ricompongono nella misteriosa e inesausta unità della conservazione.
Potrebbe forse essere altrimenti?
La filosofia dell’architettura è l’esperienza linguistica della differenza
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