Se, avventatamente, promuovessimo il misticismo secondo cui il “creare” si limita all’atto poietico, a quello genetico ancor prima che ideativo o curativo, alla nascita materiale e soltanto ad essa, ebbene, indulgeremmo in un paralogismo non da poco, confonderemmo la parte con il tutto, la tappa per il giro, la semplificazione nominale per l’effettività complessa dell’azione.
La poiesi (ποίησις) è, in effetti, un’azione sui generis, non ascrivibile al novero delle prassi, ovverosia di quelle azioni fini a se stesse, prive di scopo al di fuori della propria utilità, della propria “attrezzità”. Già duemilaquattrocento anni fa, con Platone, l’atto poietico viene chiaramente delineato come un fare atipico: quel “fare dal nulla”, quella particolare, superumana produzione ex nihilo (Plat., Symp., 205, b).
Non una praxis comune, quindi – certamente non comune alla tecnica (dal greco τέχνη [téchne], “arte” nel senso di ‘perizia’, ‘saper fare’, ‘saper operare’) letteralmente intesa dai greci come componente artigianale di una produzione che, contro se stessa, non ha niente a che fare con la poiesi, con la poesia divina del creare il nuovo, l’inedito, l’inaudito.
È in questa atavica contraddizione che il sema nebbioso del termine “creare” affonda le proprie radici e, in un certo qual modo, da millenni a questa parte, continua a germinare tra gli stolti di ogni epoca grazie alla fascinazione esercitata dalla sua confusione costitutiva, dal suo innatismo agiografico, da un intuizionismo dall’indubbio impatto cinematografico.
Creare è creare dal nulla. Ipse dixit.
I filosofi dell’architettura, però, sono per propria natura decisamente inavvezzi alla ipseità del ‘detto’ dell’‘assunto’, del ‘dogmatico’: essi sono piuttosto degli scettici, dei filosofi dell’indagine, dei distruttori della credenza, finanche quella nobile, somma e autorevolissima del profeta stagirita.
Lontani da Aristotele, benché vicini al suo lascito scettico-indagatorio, al suo scoprire ben al di là delle sue presunte scoperte, noi filosofi-architetti non crediamo a nulla se non all’eresia, alla eredità eretica della meraviglia, di quella che lo stesso Filosofo, nel suo De anima, indica come l’archetipo e il fondamento primo di ogni architettura del sapere che possa dirsi integra, autentica, solida e ciononostante ispirata da quella scintilla che barbaglia sempre agli occhi e negli occhi di chi sa molto eppure, segretamente, seguita ad accendersi per tutto.
Nell’apprensione del Tutto, nella fecondità spaziale e spirituale della “meraviglia produttiva”, l’angoscia – seppur per qualche fuggevolissimo attimo – fa come per scomparire, sommersa dall’ineffabile, silenziosa “salute” che sorregge ogni nostra creazione, che fa della creazione medesima – lungi dal rinchiuderla nel suo misticismo, nella sua indiziaria incipienza al di fuori del processo – un’origine originantesi, un’architettura che si architetta, che ogni giorno nasce nascendo, avvolgendola nel sottile mistero zambraniano della circolarità del “venire alla luce”, del creare in quanto fecondazione del nostro proprio mondo intimo, dello spazio interno ed esterno della nostra simbiosi co-esistenziale.
Creare, in filosofia quanto in architettura, come processo iniziatico e originario, dunque; ma anche autosviluppantesi, come esperimento dell’ecceità, dell’andirivieni, del saliscendi, dell’irregolarità teleologica del diventar se stessi, dell’autocompimento come riconciliazione eternamente superantesi della frammentazione, come ricomposizione dei frammenti di volta in volta avvicendantesi di ciò che siamo.
“Creare è distillare”, avrebbe suggerito Raymond Chandler. E poco importa se la distillazione in questione abbia luogo negli alambicchi della memoria della Recherche di Proust, nel porfido rosso di Gaudì o nelle lenti genealogiche di Valla: ciò che importa è che il creare sia più un dissotterrare che un immaginare produttivamente; che il creare sia una ragione umana più che una scrittura divina.
Una “ragione umana” da dissotterrare, da rivelare, da ricordare.
Creazione come anamnesi, come riavvolgimento del nastro, come narrazione angolare che va a ritroso al fine di proiettarsi in avanti, di fuoriuscire da sé, di attendere a uno scopo che la giustifichi trascendendola.
In quali recessi? In quali rimembranze? In quali miniere?
Creare è scavare, scavare a fondo, e poi crescere, far crescere l’energia di una breccia originaria fino alla scoperta della sua materializzazione, della sua fiammante fatticità.
Il nostro caso di oggi parla appunto di fatticità, di creazione, di crescita: “cantera” come “cava”, fecondatrice e incubatrice di idee embrionali che si sviluppano, fisicamente e metafisicamente, ingravidando il futuro.
Cantera: la cava dei due mondi



La gravidanza del Cantera Milano, fertilizzante pariolino di un seme ispano-orientale, dopo aver preso il concepimento e le mosse da Roma, tre anni fa è giunta anche a Milano, diffondendosi poi in tutto il Mediterraneo, affermandosi come cava della scoperta, della nascita, della contaminazione.
Il Cantera è, di fatto, come anche il suo nome prescrive, figlia di un’estrazione: dalla cava che per gli ispanofoni è, a un tempo, una buca da cui dissotterrare le pepite di una lunga sedimentazione di idee, sacrifici e cure, e altresì un vivaio in cui maturare e far maturare, pianificando forme della nascita e una continua – propriamente creativa – ricerca di nuove forme con le quali abbigliare, in maniera mutevole ma non per questo meno fedele, l’origine della propria storia.
Storia ricca di storie, di culture, di suggestioni – quella del Cantera.
Storia composita, composta da ibridazioni culinarie e sfalci d’erba a guarnire e dar vita alle pareti color vinaccia, ai kintsugi e all’ardesia dei suoi piatti oriundi, sfondo e trasfigurazione dei suoi bovini del folklore che fiancheggiano e signoreggiano sulle pareti screpolate dalla vivezza e dai costumi di un intero popolo.
Il “meat sushi”, il sushi di carne frutto di una creazione bifronte, di una distillazione sdoppiata, da est verso sud, costituisce difatti il ponte tra due mondi, quello orientale e quello amerindo, connotandosi per plurilinguismo gustativo e la materica consistenza di un incontro tangibile, palpabile, gustabile attraverso le papille, mediante le pupille, ma anche con la mente, con l’evocazione indios della dialettica tra vita e morte, nella spirale dell’oltre.
Nell’ “oltre” del suo binomio – incorporato nei teschi liturgici (calaveras) che biancheggiano, orbitali, accogliendo gli involtini o aggiogando gli sguardi e il mobilio con la propria carica limbica, simboleggiando con potenza e immaginificità la danza fra la bellezza e la caducità, fra l’ansietà e la vivacità della transitorietà –, Cantera si scopre così miniera della rivelazione, nutrice dei semi della creatività, cultrice della cura oltre l’intuizione, della nascita oltre la nascita, della produzione come rivelazione che coinvolge tutti i sensi coltivandone la sensibilità, facendo di essa il legante di un processo olistico che abbraccia tutte le fasi della totalità, che scorre lungo i binari di ogni singola stazione umana, da Pechino a Buenos Aires, tra gli organi del sincretismo e dell’orgia di un incontro che ha casa dappertutto.
Cantera è dunque fucina a tutte le latitudini, limite di un concorso di nascite che tende ad infinito.
La filosofia dell’architettura è l’atelier delle ostetriche, dei minatori, dei fecondatori.
Il Cantera è una tavolozza di rivelazioni e colori.



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