L’“agio spaziale” sarebbe, almeno nell’immaginario collettivo, da sempre sinonimo di ampiezza, di vastità, di grandezza numerica più che valoriale. “Grande”, in quest’ottica di idee e valori, diverrebbe sinonimo di “confortevole” e, pertanto, specularmente, “agiato” sarebbe nientemeno che il correlativo naturale di confortevole, di spazioso, di (grandemente) esteso.
Proseguendo a battere questo terreno semantico comodo e accomodante, muovendosi di topos in topos, di luogo in luogo comune, si giungerebbe facilmente a connotare il concetto stesso di “luogo agiato” come quello spazio di volta e volta esistito in cui prossimità e ampiezza vanno di pari passo, dandosi vicendevolmente man forte e co-creando, così, una certa qual opulenza di contenuti e una buona dose di ricchezza a portata di mano. “Ricchezza” sarebbe, dunque, “prossimità” e “agiatezza” allo stesso tempo. Essa prenderebbe, insomma, diritto di cittadinanza nell’esatto punto d’incontro tra l’“utilità” e l’“estetica”.
In controtendenza rispetto a questi invalsi del parlare più che del dire, a costo di sembrare dei bastian contrari, dei dissidenti, degli eretici, nel terzo episodio della saga de La filosofia dell’architettura, ci produrremo in uno sforzo de-costruttivo e costruttivo ad un tempo: tenteremo di decostruire l’inveterata architettura convenzionale secondo cui l’agio sia figlio della contronaturale unione fra “grandezza mastodontica” e “prossimità pragmatica” e, contestualmente, proveremo a costruire un nuovo basamento del sapere la cui colonna si protenda, verticalmente, verso i rari ( e per questo preziosi) principi di “vicinanza tattile”, “grandezza a-spaziale”, “pienezza co-abitata”.
I lettori mi perdoneranno l’apparente astrusità di questi costrutti neologistici: l’opera di demolizione e di ricostruzione del senescente apparato degli assunti filosofici e architetturali impone un lavoro estremo di ri-fondazione linguistica, grammaticale, lessicale.
La Tasteria Gourmet Sicily: in con-tatto con la pienezza
L’impresa improba preannunciata, oggi, consisterà nel toccare con mano, di tastare la storia de La Tasteria Gourmet Sicily – progetto multiforme chiaramente avverso al torbido pastiche di dogmi presuntamente incontestabili, convinzioni a buon mercato e faciloneria del ri-uso e dell’abuso –, luogo delle non-comuni velleità di Francesco Antonuccio; spazio piccolo di una grandezza altra; singolare e densissimo conglomerato di pensiero libero, originalità imprenditoriale, folclore e, ultimo ma non per importanza, mito.
Per il padre del “pensiero libero” – del pensiero al suo stato nascente –, per Platone, com’è noto, il mito assumeva un ruolo centrale: quello di esprimere le dottrine della filosofia, dell’originaria architettura delle idee attraverso delle immagini, mediante il miracolo dell’allegoria, della trasfigurazione. A suo dire, il mito era difatti investito di una missione cruciale: superare le rigorose asperità del concetto razionale e la mediazione della significazione linguistica cucendo, così, una veste del pensiero che potesse essere a misura d’uomo, bella e buona (kalòs e agathòs, per Platone, condividevano l’essenza e non potevano quindi essere in alcun modo distinguibili) e immediata al punto di essere riconoscibile e co-abitabile da qualsiasi essere umano.
Per il filosofo ateniese, il “mito” in quanto mezzo nobile (bello e buono) di una comunicazione tendenzialmente universale, in quanto democratizzazione della bellezza dell’Idea attraverso l’immaginifico dono della metafora rappresentava, in fondo, un originario invito all’apertura: all’apertura del pensiero all’uomo e di quest’ultimo a se stesso e all’Altro in uno spazio in cui convivere nel nome della “vicinanza” più che in quello della “prossimità”; nel segno della “grandezza valoriale” più che in quello della “grandezza misurabile”; nell’immagine della “pienezza del con-tatto” più che in quella di luoghi ricolmi eppure, irrimediabilmente, vuoti.
A ben vedere, la missione de La Tasteria non differisce, almeno nei suoi intenti, da quella titanica lasciataci in dote da Platone: appaiare etica ed estetica, gusto e responsabilità, bontà e bellezza. Ma come?
Se la “fatica del concetto” approntata in tempi e modalità non sospetti dal pensatore greco è, più o meno, nota a tutti, quella dell’ideatore de La Tasteria ha, invero, percorso vie insolite, traverse e atipiche (da a-tòpos: di cosa, persona o evento che eccede il tipo preponderante; che risiede altrove, in un luogo altro, non-comune), partendo da una terra lontana ma oltremodo evocativa, dalla Sicilia perversa e polimorfa, fruttuoso coacervo di inarrivabili bellezze e insanabili spaccature, culla magnogreca del principio di Archimede e della filosofia del linguaggio di Gorgia, madre della Valle dei Templi di Agrigento e della Messina (quest’ultima terra natìa di Francesco) dei primi intrighi punici e della Lisabetta di Boccaccio, quest’ultima madre del mito nel mito de La Tasteria, della morte incombente e fertilizzante, del simbolo della grazia ermafrodita, del mosaicismo tragico della testa di moro.
Tra le tante versioni di un mito al di là dello spazio e del tempo, quella di Boccaccio è infatti quella che meglio esprime l’ineffabile cifra de La Tasteria, la sua essenza “extra-ordinaria” da assaggiatrice ( “tastare”, in dialetto siciliano, sta tanto per assaggiare quanto per toccare con mano) di idee, da artista del tocco (dal latino palpatio), da innovatrice della pienezza dello spazio e, non per ultimo, da innamorata: della piccolezza, della grandezza (in senso lato), dell’insospettabile “grandezza della piccolezza”. La storia boccaccesca, narrata da Filomena nella Giornata IV, novella 5 del Decamerone, in effetti, non è che una storia d’amore: Lisabetta da Messina, infatti, ama segretamente Lorenzo, un avvenente giovane di belle speranze di natali pisani. Quando la famiglia, siciliana fino al morbo, ne scopre i sentimenti, i fratelli di lei uccidono Lorenzo, seppellendolo nelle aspre campagne messanesi. Lisabetta però, forte del proprio irriducibile sentimento, riceve in sogno la visita di Lorenzo che, redivivo, le rivela il luogo della sepoltura. Lisabetta si risolve pertanto a dissotterrare il cadavere dell’amato, recidendone la testa e portandola con sé, per poi nasconderla e custodirla in un vaso di basilico. Lisabetta, straziata dal dolore della perdita, versa tutte le proprie lacrime in quel vaso e su quella testa, tanto che il basilico, frutto incredibile di quell’amore indomito, inizia a crescere rigoglioso.
Quello del Decamerone è, ahinoi, un mito tragico: una volta scoperto lo stratagemma di Lisabetta, infatti, i suoi fratelli, sprezzanti verso la purezza del sentire di quell’Antigone sui generis, rubano infine il vaso disfacendosene una volta per tutte e lasciando, così, la giovane vedova inerme a struggersi su quella illacrimata sepoltura.
I toni amari del suo mito prediletto, insieme alle violente fratture, alle poetiche controversie e ai doni impareggiabili della sua adorata Sicilia, hanno spinto Francesco a ripensare il passato della storia e dell’arte narrativa inducendolo a narrare la sua propria storia e una nuova ricetta spaziale ed enogastronomica: una storia fatta di spazi piccoli ma non angusti; della ricchezza e dell’agio semplice di un posto, il suo, inadatto ai seriali sostenitori dell’opulenta grandezza prêt-à-porter e, piuttosto, incline alla veracità silenziosa e potente del tatto, del con-tatto, della pienezza multisensoriale di una vicinanza primitiva e archetipica al concetto di bello e di buono, di originale e di originario, di vario e di ricco.
Ricco di sapori e di colori, tanti quante le varianti delle sue teste di moro, delle oliere, delle saliere, delle suppellettili artigianali sali della sua attività liquida, fluida e inafferrabile come le facce di una tragedia al di là del genere, femmina come l’eroina sofoclea, maschia come il mare pirandelliano. È da quello stesso mare – « immenso e geloso » – che Francesco ha tratto i suoi semi e il pane della sua ambizione intuitiva e metastorica, arando il campo delle proprie vicinanze: un vigneto del bello e del buono che faccia della sobrietà delle sue forme il proprio argine sacro e un inno alla genuinità da “tastare”, da abbigliare con i suoi costumi sartoriali e la spontaneità tipica della sua terra: terra di vini, anfore e pescatori; intreccio di reti e ideali imperituri; trama di una novella ancora tutta da raccontare.