Che il termine “fortuna”, largamente connotato, abbia più o meno a che fare con qualsiasi declinazione dell’esperienza umana su questa terra è una credenza ampiamente diffusa e, benché non ne manchino i detrattori (compreso chi vi scrive), essa ha sempre goduto e gode ancora oggi – mi si consenta la diafora – di una certa fortuna e, nondimeno, di una nutrita schiera di accaniti sostenitori.
La chiara fama di questo inveterato costume del vivere e dell’agire, come spesso accade, affonda le proprie radici nel fertile terreno linguistico ed emotivo greco: è d’ “emotività”, in effetti, che tyke (o tyche; gr. Τὺχη) – fortuna, sorte, sortita umana nella dimensione dell’imprevedibile – si sostanzia.
Forza imprevedibile, misteriosa, imperscrutabile, la Fortuna occupava un posto privilegiato nel firmamento ellenico ed ellenistico essendo, da più parti e canti, riconosciuta nientemeno che come un’Oceanide, una potente divinità “pre-olimpica”. La sua aura veterotestamentaria, dovutale, per così dire, ex authoritas, la rendeva temibile per i più e particolarmente invisa a indovini e re, essendo questi ultimi – similmente a noi filosofi dell’architettura – costantemente alla ricerca di costanti, di invarianti, di leggi. Delle leggi, eccezion fatta per quella del Caos, poco importava alla dea Tyche e al suo animo da virago, da amazzone, da funambola dell’imprevedibilità.
Inafferrabile forza primigenia, già rispettosamente e floridamente descritta dalle scorribande teogoniche di Esiodo, Fortuna era intuibilmente in competizione con tutti i fidiani: gli scultori, gli architetti, i designer prima della lettera ne rifuggivano comprensibilmente il fascino arcano e quelle sue mollezze da distruttrice della stabilità, della fortezza, finanche del talento.
Con buona pace di Tyche (e perfino del suo apologeta contemporaneo più illustre alias Woody Allen), per quanto ne sappiamo, il talento – quello creativo e costruttivo, sintetico e analitico a un tempo, quello in cui coesistono i doni della lirica e le prodezze astrattive dell’intelletto –, il talento autentico è prerogativa ben più influente della fortuna poiché, grazie ad esso e solo ad esso, quella può venir domata, neutralizzata, canalizzata, architettata, filosofata.
La filosofia dell’architettura è, con Machiavelli, al tempo stesso arte e scienza: arte del limitare ai minimi termini le angherie imperscrittibili del fato, del piegarle all’apollinea autorevolezza della bella forma; scienza della legiferazione, del dominio dell’intelligenza teorica, pratica e poietica sull’arbitrio del caso, sull’anarchia dell’eventualità.
Essere, machiavellicamente, dei principi dell’intemperia, dei conquistatori di possibilità, dei sapienti maneggiatori di imprevisti è, in effetti, congenialità degli eletti, privilegio dei rari. Ignorare che basti sapere – che basti il sapere – per soggiogare la sorte sarebbe, d’altra parte, un’imperdonabile leggerezza, una semplificazione facilona da non bere né da dar da bere.

Tyke Lounge Bar: il profilo della “fortuna”

A proposito di bere, di privilegio, di fortuna, oggi vi racconterò di un sito iperboreo in riva allo Stretto, di quella che, a pieno diritto, si rivelerà essere la transustanziazione ristorativa di “tyche”.
«So di saper bere» è, infatti, il socratico mantra di Tyke Lounge Bar – dall’idea fondante e fondativa di Antonella Ruggeri, con la solida direzione di Antonio Impollonia  e l’estro culinario dello chef Paolo Romeo –, messinese d’elezione e d’origine, luogo eletto dalla fortuna e Fortuna anch’esso, che del proprio nome ha fatto una parabola, un’architettura, un percorso naturale che, alla fortuna, preferisce il rischio sapiente dell’impresa e la saggezza generativa della madrepatria Sicilia; che alle criptiche intemperanze destinali, preferisce le gesta trasparenti dell’isola del mito e quelle concrete, incarnate, presenti dei propri attori.
Nel teatro di cristallo della Trinacria, nel suo evocativo vertice nord-orientale, Tyke ha dato inizio al suo traghettamento, dapprima in riviera, in uno spazio parlante in cui il disegno della fortuna è costretto a cedere il passo a quello materico, al potente spettacolo dell’architetto kantiano, del demiurgo senza nome che, nell’anonimato metafisico, è solito plasmare e musicare contorni fisici, arpeggi di terra e mare, di mare e terra insieme. Nella Sicilia del miracolo, Antonella ha fondato la sua personale terrazza di paradiso prima di approdare sulle sponde continentali del centro città, a due passi da piazza Cairoli e a un’insegna dalla leggenda.
A Messina, baciata dalle Muse, dal Caso o dalla volontà di Dio, ha profilato un fortunato alter ego della sua prima creatura, il suo secondo frutto, quello siamese della fortezza, della dedizione, dell’amore.

Dall’inesauribile cava del suo amore, per l’enogastronomia e, soprattutto, per la propria terra, Antonella ha tratto la forza marmorea per la sua impresa e i materiali – come lei, concreti e sognatori a un tempo – per scolpire la propria casa: col marmo dei suoi tavoli, frastagliati e cangianti come i lussureggianti mari dello stretto; coll’ottone aureo, privilegio nel privilegio, foggiando soffitti e fantasie; con il legno, simbolo di Tiche, del suo timone da navigante navigata, pavimentando il proprio viaggio, scandendone i tempi miliari, intarsiandone la parabola.
Tike non è, in fondo, che una nave forgiata dal fuoco naturale di un rischio consapevole e di una scelta potente: la scelta di pensare e ripensare il proprio territorio in virtù di un’incrollabile volontà attiva e di una conoscenza intima della complessità di un tessuto, quello siciliano, non povero di smagliature, di criticità. Alla luce della propria esperienza e di tutte le esperienze vissute tra le creste e le depressioni del mare mosso dell’imprenditoria, la Ruggeri e tutta la sua flotta hanno prontamente compiuto la decisione di veleggiare impavidamente nonostante le correnti alterne della sorte, disegnando con ferma naturalezza l’origami della propria visione.

Proprio come un origami, essenza più che formalismo, forma che è più che forma, Tyke ha prosperato mutando pelle, ma mai essenza: essenzialmente, sotto i riflettori delle nove luci in aggetto sul viale Garibaldi, illuminati dai numi della curiosità – santi protettori degli avventurieri, degli scopritori, dei fortunati, dei filosofi dell’architettura –, i creatori di Tyke hanno piegato “a petalo” la loro infiorescenza spirituale, l’anima del loro proprio talento: come per gli origami, su carta, hanno siglato il patto con la più leziosa delle dee. Dopo un serrato corteggiamento, Tyke è finalmente convolato a nozze con Tiche.
La filosofia dell’architettura, del resto, è una questione per seduttori.
Non è forse cosa nota a tutti che la Fortuna sia femmina?


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