“Il design è una cosa scottante“.
Chiosava così Gillo Dorfles in uno dei suoi tanti vani, ma nient’affatto inutili, sforzi di catalogare il design.
Cosa intendesse poi per “cosa” o per “scottante”, ebbene, è tutto da dimostrare, da argomentare – vanamente, ma non inutilmente –, da narrare. “Narrare”? Sì, da narrare, raccontare, sostanziare al grado del linguaggio, poiché soltanto in quella stregua, a quel cielo di astrazione, in quella forma di comunicazione dicente, noi siamo.
Perché siamo quel che siamo e, a ben vedere, il design è quello che è. Tautologia? Colpevole, vostro onore!
“Essere”, dicevamo: essere come coniugazione più propria della libertà progettante nei vari modi del presente, con la memoria ininterrotta a partire dal tempo del passato e la pro-tensione attiva al futuro. Anche noi, come il design, siamo una “cosa” scottante, nel senso che ogni azione che ci riguarda è un “gettarsi”, un “importare”, un “esportarsi” al di là della mera presenza. Perché ne va della nostra esistenza – il nostro, in tutte le sue forme libere, è un “umanismo” arroventato.
“Caldo”, ancora con Dorfles, per via della sua mutevolezza assorbente, per il suo fisico esser spugna e termometro del gusto del disegno, del disegno del progetto, del progetto progettante che è vita e design insieme.
“Caldo”, nondimeno, per la sua urgenza esistentiva: per la sua temperatura sostanziale e, al tempo stesso, per le sue accidentali utilità e bellezza.
“Utilità”? “Bellezza”?
Incontro inaudito, secondo le Scritture: scrittura da inscrivere nella circonferenza delle bizzarrie o, peggio, dei parallelismi inconvergibili. L’utilità è, in effetti, cosa altra rispetto alla bellezza poiché la prima è sinonimo di “essere-per-altro” e la seconda è, in opposizione ad essa, un “essere-per-sé”, un “essere-in-sé-e-per-sé”.
Almeno per gli uomini, si intende; o per le arti, tutt’al più. Ci si potrebbe, in tal senso, interrogare sullo statuto primo e ultimo del design… Il design non è forse un’arte, quindi?
Nossignore, non lo è. Non lo è, certo, se per arte intendiamo l’esclusivo essere per sé, la sublime inutilità tautologica, la suprema messa in opera della verità.
Il design è, invero, arte e non arte allo stesso tempo. Ed è artigianato.
La sua “cosa bruciante”, rovente, bollente è la sua propria materia o, per essere più precisi, la dialettica esistente fra la sua matericità e la sua foggia, fra la sua propria causa materiale, quella formale e quella finale, finalizzante, finalizzata a un utile che sia bello, a un bello che sia utile.
Ecco, cos’è, la filosofia del design – la rubrica nuova e senza tempo di Vincenzo Cocivera –: è una materia scottante, lo studio intorno alla “cosa (res) delle cose del design”, di tutte le cose.
Conversazioni al caffè


«Ma buon pomeriggio, quanto affanno, siediti pure… Caffè?
Respira, appendi la giacca, mettiti comodo…Caffè?».
Così Giovanna mi dà il benvenuto nella sua “casa-giochi”, di fronte al solenne e “anti-diversivo” Castello Sforzesco eppure così “diversiva”, con la familiarità dei suoi ninnoli e la focolare urgenza di tutta la memoria, del suo design, di tutta la sua propria vita. Vita che sporge dalle ampie vetrate fino a contrapporsi alla seriosa contro-urgenza della miseria quotidiana, dell’impegno ossequioso, del gran incedere della responsabilità senza voce dell’adultità.
“Conversazioni al caffè”, le faccio io, tra una lettura alta e le alte sfere della bambineria impegnata, del ricordo arroventato di un maître-a-penser della “cosa delle cose”, di un padre del design e della sua infanzia, paterno e giocoso creatore di spaccati d’esistenza purissima e, per questa stessa ragione, genio della fratellanza, della sorellanza fra Giovanna e il design, entrambe donne della sfumatura, specchiere che rifrangono il sole di un genitore comune gettandosi fuori, in avanti, fino alla verità brumosa del crepuscolo.
“Conversazioni al caffè” come per un altro maestro del pensare, il Sartre delle mots a Gerassi, intervistatore d’eccezione traboccante, pure lui, di eredità, caffeina e parole: parole in quanto moti del pensiero attivo e, perché no, correlativi immateriali della progettazione materico-estetica del design.
“Quali sono le regole del gioco?”, le chiedo io, mentre lei me le svela in ogni sua allusione, illusione, ingegnosa macchinazione, nella parvenza, in ogni movenza, nelle mosse da scacchista del papà e della sua brigata, nell’immaginazione vivida di un presente reversibile, nella fantasia eternamente ritornante di un tempo mai perduto.
Con buona pace di Proust, quello di Giovanna è “un tempo mai perduto”, la ricerca fanciullesca e ridente di un “oltredesign” che danza piroettando di continuo, nel rimbalzo accidentale delle fasi dell’anima, nel dialogo inesausto fra gli oggetti vivi della sua infanzia e la fiamma ardente della sua maturità altra, altra dal padre eppure complementare, di quella complementarità che presiede il legame immarcescibile fra padre e figlia, e di padre in figlia va tramandandosi, di calore in calore, di sedie Mezzadro in poltrone Sanluca, nel gettito splendente, resistente, ex-istente delle lampade Arco come nel suo sorriso-pianto che è testamento e rinnovamento, regola di un gioco fra bimba e papà, di un gioco fondativo, potente e sfacciato che travalica persino la morte.
La filosofia del design è il rito dei giocosi, dei ridenti, dei titani, degli irriducibili.
Il nostro è un affare che scotta.

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