Che la libertà, in fatto di filosofia come di architettura, rappresenti allo stesso tempo un fardello e una benedizione è, per così dire, un luogo comune a queste due scienze e, per estensione, a tutto ciò che noi chiamiamo “mondo”: mondo della scelta perennemente teso tra la gloria e l’infamia, tra l’autenticità e la deiezione, tra l’ignominia e la celebrazione.
Mentre, com’è noto, non mancano le lodi sperticate in favore dello stereotipo frusto della glorificazione come sublimazione dell’autonomia creatrice, da bastian contrario quale sono, contro le facili pacificazioni dei preti del quietismo, mi verrebbe però da chiedermi: che ne è dello spazio della caduta?
E, in seconda battuta, esiste davvero uno “spazio della caduta” o i luoghi dell’umano non sono che le sfumature compossibili della medietà somma del mutamento, del continuum multicolore di una parabola senza pedice né apice?
Non siamo forse figli del divenire? Dell’intermezzo? Dell’infuso soffuso del cammino?
Come si impara a diventare un architetto-filosofo? E un samurai? E, ancora, non risiede forse nella decadenza, quella spregiudicata della libertà, il fondo sincero di ogni controversa parabola esistenziale?
A proposito di persone umane, di architetti, di filosofi, di samurai, di spaziatori temerari della libertà, come non mutuare dalla conica tradizione giapponese una figura, almeno in questo senso, in quest’ampiezza di senso, esemplare come quella del samurai destituito, del rōnin?
Il Ronin (浪人, rōnin, lett. “uomo alla deriva”, “persona che impara a diventare samurai” o “uomo-onda”), eponimo e incarnazione della decadenza, del decadimento libertario della proprietà della casta, dei signori, dell’insurrezione contro gli illibertari detentori del potere e persino degli onori, disonorati per un atto d’amore, per scelta, per un empito di libertà.
Ronin uomo-onda, ondivago per indole, per spregiudicatezza, per attaccamento alla propria sacra individualità, all’identità più che al blasone, alla giustizia più che alla fama. Ronin uomo-décadent, avant Rimbaud, avanti rispetto alla sua stessa contemporaneità, inossequioso sovvertitore di retaggi, costumi, di yoroi troppo strette, armature della sobrietà incolore, della subordinazione insulsa, dell’anemia dei sensi, dell’astensione, dell’inflizione, dell’astemia della subordinazione.
Ronin uomo-battello, bateau ivre pieno dell’ebbrezza senza macchia della liberazione, ebbro di spazio e di tempo, conquistatore della nobiltà dello spazio condiviso, comune nel nome dell’affrancamento, della vicinanza fra aperture, di volontà, di incontri tra pari, tra paria nobilissimi, capovolgitori indomiti di feudatari e imperatori, soppressori di valori, rivoluzionari della guerra e del saké, perché spesso la finezza dello spirito è custodita più nello yuzu che nel seppuku, nell’izakaya più che nell’harakiri, nello spazio decadente e tuttavia totipotente della vita più che in quello stazionario perché inerte della morte.
Izakaya – dalle parole “i” (sedersi), saka (bevanda alcolica) e ya (negozio) –, appunto, metafora dell’ebbrezza e dell’unione, elisir della libertà libera e della gioia alcolica dell’incontro, dell’incontro di autonomie dell’esser-ci, della fessura lignea del negoziato tra personalità, rarità senza padrone che tendono al racconto, alla comunione, all’incrocio inevitabile tra entità irripetibili.
Izakaya come tempio del ronin, del pentagramma della convivenza, del bar dell’ascolto, dell’animalità politica della relazione, del convivio che tutto esalta – nutrimento dell’estasi, balsamo che avvicina, richiamo libero alla decadenza fra un sorso di chuhai e un boccone di edamame.
Ronin come crogiolo di luoghi, colori e musiche, assecondamento multicentrico dei differenti luoghi, colori e musiche parte di ciascuno di noi, noi uomini della decadenza, del nomadismo, dell’ebbrezza, dell’architettura e della filosofia, noi uomini dell’oltre, noi neofiti di Chinatown, avventurieri e ronin diretti verso il Ronin, come gli alfieri del Saul, in via Vittorio Alfieri 17, nella zona d’onda dell’izakaya.

Rōnin: la zona d’onda dell’Izakaya

Rōnin – da un’idea di Guillame Desforges e dei fratelli Jacopo e Leonardo Signani, realizzato dalla Design Unit insieme allo Studio SC + –, epicentro della milanesità densa, della mondanità spessa ma dinamica a cavallo tra Oriente e Occidente, annunciatore del soffio intermondano tra le luci dei lampioni e il romanticismo del crepuscolo.
Luci soffuse, a partire dal Piccolo Ronin, anticamera del piacere e quintessenza dell’izakaya elegante e disimpegnato, della prima sortita nel levantinismo sprezzato di Ronin, di quel piccolo microcosmo di disinvoltura e cura dei sensi tra una “Sapporo” e un karaage, saggi gustativi di una bellezza circolare maltata e smaltata, impanata e appianata dall’ospitalità svelta e croccante di giovani gūji del vezzo, del divertimento, dell’istrionismo.
Lungo l’istrionico marciapiedi del transito e del trapasso, della transazione e della transizione verso nuovi mondi e diversi linguaggi, si è poi catapultati nello spazio luminescente della sede centrale, della roccaforte al neon dei ronin e dei loro compagni di scala, tra le rampe satinate e le tarsie neo-liberty a scandire i gradini dell’incontro musico-culinario, nel piratesco omaggio all’emancipazione corsara della pirata Madame Cheng’s, capitana delle quattro sale karaoke in chiaroscuro, punteggiate da scacchi iridati e accesi, ad accendere lo stereo e il flusso stereofonico dell’interazione, dell’allegrezza, fino a condurre, attraverso le specchiere e gli stilemi modernisti, fino alla sorgente dell’ubriachezza nobile, quella d’arcobaleno del mixology bar, tra le pelli lucide dei divani a penisola, le scatole chiuse dell’esperienza bento e la finestra sulla suggestione lontana e vicina di Shinjuku, nel cuore milanese di Tokyo, nel polmone tricolore della Milano tokyana.

Capitolo a parte meritano poi Hatsune Zushi – di Katsu Nakaji, shokunin, ronin dell’omakase, attore protagonista del quartier generale del sushi sopraffino, di quello originario dell’iconico “food head quarter” della metropoli giapponese e perla unica del mastro-artigiano Nakaji a ovest del Sole – e Ronin Robata, autentico fuoco della filosofia dell’architettura ellittica di Ronin, coll’ardore della vampa cocente, divampante per ceramica, sulla ceramica eletta della griglia yakiniku, negli scorci intimi rifratti dalle griglie dal lumen ricco e discreto di bande leonine che gettano il neon sulle ombre sicure e venate del Kobe A5 come sulle infiorescenze del Bimi, in quella loro capillarità alleata a base di clorofilla, proteine e oro-fiamma.
In ultimo, l’Arcade, club della bohème sulla bohème, col taglio privato e le sofisticazioni di opulenza piana e il piano di sequenze e finezze ambientali tipiche dell’orientalità più feconda, di quella che coniuga biliardi texani, scaffali londinesi e carrelli Gueridon, schierando la sua carrellata di emozioni, canti e cucine, cucinando eventi esclusivi su sfondo appartato, nella cornice parata delle sue carte, dei suoi tratti cuneiformi, del tratto inconfondibile della sua zona d’onda, del suo santuario d’onde, delle sue sponde da iperborei.
Il Ronin è una missione per temperamenti forti, per guerrieri impavidi, per poeti dell’alto mare.

La filosofia dell’architettura è il linguaggio d’elezione degli uomini-onda, dei samurai della bellezza, dei costruttori dell’incontro.

Il Ronin è un richiamo libero alla nobiltà della decadenza.


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