“Abitare”: voce altra rispetto alla verbalità brutale dell’“occupare”, a quella frivola dell’ “alloggiare”, a quella iper-naturalistica del “vivere”.
“Abitare” in quanto abitare e niente più, quindi – se per “niente”, certo, si intende quella tautologia, quell’ “essere-in-quanto-tale” che è, in fondo, lo scopo ultimo di ogni “essere”, di ogni sostanza degna di questo nome, substantia poiché substratum, sostrato, strato originario che la riporta a se stessa, à rebours, a ritroso verso quell’autosussistenza linguistica e materiale tipica di ciò che si regge sulle proprie fondamenta senza la necessità di riferirsi o di essere referenziato da quelle altrui.
Abitare in quanto auto-riferimento, auto-referenza, auto-fondazione, dunque.
Abitare come fondazione filosofico-architettonica di significati e strutture: forma a priori del costruire e dell’esistere, dell’esistere in quanto costruzione di senso di una vita, quella umana, esistenzializzata dal progetto e soltanto nel progetto, in quell’orizzonte illineare che è la libertà propriamente concepita come incontro tra volontà particolari che si compiono mediante la possibilità e si fondono nella società.
Abitare come termine sostanziale che, però, dà del tu al socializzare, che ha presa sull’uomo nella sua propria intimità e altresì sulla sua esigenza della differenza, del differirsi attraverso lo sguardo d’altri, nell’attardarsi nella casa d’altri, nelle stanze della politica, nelle cantine in cui ha luogo l’affinamento del con-essere, del co-abitare un mondo che non possediamo ma che ci appartiene, sì: un mondo che ci appartiene in quanto slargo del del co-esistere, della costruzione comune di topoi virtuali e materiali in cui maturare maturando, nelle botti pazienti della verticalità, alla volta dell’apertura orizzontale verso l’altro, dell’altrui abitazione, delle istanze fondamentali della libertà del filosofare e dell’architettare, dell’architettare e del filosofare insieme.
Filosofia dell’architettura come spazializzazione dello spazio: spazio dell’affinamento, ebbrezza della decantazione, cadenza metaforica delle fasi della nascita, dello sviluppo, della ricerca, dell’apertura estatica all’altro da sé.
Il caso di oggi ventilerà, in un certo senso, proprio quest’apertura, questo approdo fenomenico nello “spazio dell’affinamento”, proponendosi di ingranare la messa a fuoco sull’incommensurabile terreno dell’abitare in nome della diversità, di quella biologica e antropica, della diversità che è collante fra specie, costumi e modi del coltivare e del vivere.
Sul terreno marnoso e verdeggiante dell’Oltrepò Pavese, della nobile Clastidium, oggetto della memorabile contesa tra romani e galli cisalpini nel terzo secolo avanti Cristo, sorge infatti Prime Alture, azienda vitivinicola dal respiro ampio almeno quanto i suoi ettari striati d’amarena, gemme calcaree elette per geografia, per bellezza, per cosmogonia.
Prime Alture e i tesori del parallelo eletto



Nel 2006, per mano e passione di Roberto Lechiancole, matura così Prime Alture Winery & Resort, accomodandosi sulla cima striata del 45° parallelo – il parallelo del vino –, come a riservarsi un posto privilegiato, una tribuna zenitale su Voghera e sul suo glorioso futuro destinale.
A 290 metri d’altitudine, sulle prime colline della Casteggio fiore all’occhiello della Roma repubblicana, Prime Alture prende vita con l’ambizione di far sbocciare l’Oltrepò Pavese – area vastissima di circa 3.600 ettari, ricoperti di vigneti e lavanda, prima area in Italia e terza al mondo per estensione della produzione di Pinot Nero – sotto il proprio ulivo secolare e la decennale esperienza della squadra composta da artisti delle viti di fama internazionale come l’enologo Jean Francois Coquard, il mastro di cantina Fausto Comotti, l’agronomo Claudio Giorgi e il mastro potatore Claudio Brunelli.
Nell’angolo acuto del parallelo quarantacinque, intonando a più voci l’accento territoriale pavese, la squadra di Roberto si è raccolta intorno alla marna pavesata di diamanti di glicine e chicchi neri, raccogliendo a mano e in cassetta, pigiando con prontezza e amore, e con amore proteggendo gli acini dall’ossigeno, conservandoli dalla vigna fino all’imbottigliamento, al riparo dalle arie cattive, dagli aliti di vento, dall’ossidazione.
Alle prime luci di una nuova era, Prime alture sfoggia così le sue vesti variopinte tra cantina, ristorante e resort, abbigliata di tutto punto con i suoi legni pregiati e i suoi lussi semplici, assaporando i colori di una terra che corre a perdita d’occhio punteggiata dal gialleggiare dei girasoli e dalle latifoglie sparse come barche in rada tra gli ormeggi di ontani neri e pioppi ridenti come il sole che cade a picco sull’osservatorio da degustazione, le junior suite di quercia aristocratica e la piscina a sfioro che rifulge la luce fino a disperderla tra i tralci purpurei accarezzati dalle brezze e dai narcisi.
Materiali poveri fino alla munificenza fanno poi da pietra miliare, sfondo petroso e impreziosimento al culto dell’abitare e del ristorare, del viziare Bacco con i divertimenti per palato trascelti dalla tradizione, votati all’innovazione.
La linfa amaranto di Prime Alture sgorga così, elegante e purissima, dalle bouches delle bottiglie di pinot o dal metodo classico, con la bocca buona del metodo dei cugini transalpini, con le sue botti imperiali per fecondare nell’acciaio, raffinare nel rovere francese o nella lignea delicatezza della Slavonia, culla croata del perfezionamento, custodia dell’aromatizzazione, temperatura della prefazione, della parola prima dello sbicchieramento, mineralità del calice nel fuoco della sostanza, nell’essenza della vinificazione.
Prime Alture è la boutique degli uvaggi, dei gioielli da afferrare, delle rivelazioni da “caravaggi”.
La filosofia d’architettura è la vendemmia dei pittori, dei cultori, degli agronomi della cura.
Prime Alture è la coordinata eletta dal Dio-Affinatore.



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