“Residenze sulla terra” le nostre tracce nello slargo abitabile, nel mondo dell’esser qui e ora, dell’essere nel “ci” esistenzialmente concepito come “izzazione” dello spaziotemporale, esistentivamente inteso come tensione profondissima, quasi spaccatura, fra identità e relazionalità.
Residencias en la tierra come il disegno eco-poetico del cantore dei vinti, designer prima della lettera figlio della bellezza aspra del Sud America e del dramma acerrimo dell’imperialismo, nemico irredento della regia noir del Capitalismo avanzato.
Erano gli anni ’20 quando Pablo Neruda metteva mano ai suoi disegni, ai suoi progetti residenziali prima che universali, crepitando una parola ampia ed esorbitante come il mistero del suo continente, indigeno e pluviale come la figurazione poetica o la Foresta delle Amazzoni.
Nel 1925, dopo aver lungamente raccolto i tasselli marmorei e le sue lettere giganti nelle discariche dei padroni – dotatosi di cazzuola e leverino come un proletario Modigliani, per un quarto filosofo e per l’altro designer, per gli altri due poeta e muratore –, dava inizio alla sua opera di ri-ricostruzione della materia naturale e antropica a partire dalla guerra santa ai blocchi prosaici dell’Occidente e all’indifferenza antiumana che, senza scrupoli e da ogni parte, imperversava padrona.
Proprio lì – nel “ci” – prendeva le mosse, con la penna e il righello, col cuore sghembo e dei macigni sul cuore: «blocchi sul punto di sprofondare, poemi sostenuti sull’abisso da un filo di ragno, sorriso con una lieve sfumatura di giaguaro, grande mano coperta di pelo che gioca delicatamente con un fazzolettino di trina».
Con Garcia Lorca magnifico esegeta, sorretto soltanto dal ricamo profetico delle sue origini, come in bilico sul ricamo fine e sottilissimo della sua parabola, ripensava l’idea di abitazione, abbracciando parole e progetti sul piano dell’umanità, dell’ospitalità linguistico-spaziale della ferita libera, dell’appartenenza legittima alla diversità.
Diverso per elezione, biodiverso per estrazione, eguale per scelta e missione, riattraversava con mano ferma il filo fluviale dell’infanzia, le privazioni, l’impegno irrimediabile di un’impresa immensa.
Immenso ed eterogeneo come la sua missione multicolore – dal natìo Cile fino al portale d’accesso che dalla Colombia conduceva al Brasile e, più in là, lungo il greto sommerso dal bacino di acqua e speranze più esteso del pianeta –, Pablito ripercorreva le tappe di una storia tutta da riscrivere, da riprogettare, da ricostruire.
Una storia – la sua, la nostra, quella di tutti – da proteggere dalla deforestazione dei oppressori della bellezza, in nome della bellezza, e della resistenza mai doma tipica degli artisti della carta, della morale finanche degli alberi amazzonici, Noci del Brasile che scoperchiano i fuochi violenti con la grazia inespugnabile della ramificazione, della genetica intonsa del Renaco irrevocabile che si auto-rigenera, amore compreso tra la verticalità e l’altezza, ramo sacro che si prostra fino alla radice e, dalla radice, ardisce nientemeno che alla rivoluzione della procreazione.
Materiale scottante, quello nerudiano, caldo come il medium delle Residenze, mezzo acuto del gettarsi al di là, del principiarsi fuori dal proprio mondo-sfondo verso il contatto con l’Altro, fin dentro l’articolata policromia di uno spazio condiviso.
Filosofo e designer, fabbro del fuoco e della forma, Neruda erompeva così dall’innocenza striminzita della sua infanzia, scoprendosi mancante e pertanto costretto ad ampliare la piazza della propria personalità dando voce e luogo ai moti dei giusti, precipitandosi nel movimento inevitabile della Storia con sofferta lucidità e “sfumatura di giaguaro”.
Mitú – Spirit of Colombia: il dominio dell’intimità



Da un’altra curva, quella iniziatica del giaguaro che trapassa la Colombia lungo l’alveo della mitologia fluviale dell’Amazon, sorge la frontaliera Mitú.
Navigando tra i fiati bilingue dell’America nativa – da un’idea di Iván Ramiro Cordoba e suo fratello Andrés, originari di Rionegro, Luca Monica e Filippo Ingraffia – nasce Mitù – Spirit of Colombia, mutuante il nome dall’omonima cittadina colombiana che segna l’alleanza geografica e culturale con il Brasile, e che fa da presagio d’ingresso alla Foresta Amazzonica, viatico felino e ancestrale come il logos e il logo, “Spirito della Colombia” come nel sottotitolo, residenza nerudiana tra le plaghe del consorzio terrestre e le pieghe temerarie del sorriso fiero del suo giaguaro.
Da Castaldi a Pollaiuolo 3, da Porta Venezia a Isola, nella porta nella porta oriunda della penisola che incontra il regno incaico, sfocia così Mitú, simbolo dell’architettonica residenziale dell’“Yo soy” del Poeta, imperfetto come quello ma deciso a frugare il mondo, ispirato dal sapore fratello di gustare ogni piatto, ogni verso, ogni casa, ogni cosa.
Nel verso della Milano che riscopre la scia dell’intimismo aereo di Isola, nel quartiere fluido del lusso sprezzato, sprezzante l’affettazione e la banalità degli affetti, prende forma il Mitú della mitologia vivida, dalle sembianze animalesche di Barranquilla, abbigliato con le maschere colorate dall’orizzonte frontaliero della sua culla, il nero e il bianco del Carnevale, le pietre maltate in vista, con le svettanti e smaltate piante tropicali a rincuorar la vista, a trasparire contro ogni giogo, nel gioco intimo del dominio palingenetico del Renaco dai rami di drago e le radici di fenice, sulle tavole redivive delle leggi dei Wayuu, insegne primitive di un’era al di là della tecnica e del secolo.
Dai cesti Wayuu, lumi tribali capovolti, risaltano poi i lampadari in rafia, copricapi della ritualità, goduria sui capi degli avventori in festa, adepti ammirati dagli arredi della foresta e dal dente dentro la crosta dell’empanada, polpa croccante a base di pipìan, afrodisiaca grazie al suo aji piccante di arachidi, nei bocconi di guancia tumidi della pluma come nella piumata carezza per palato, gusto esplosivo e dorato della purea di arracacha, tubero indio che invoca il chicharròn elegante e laccato, maialino intrigante e patinato che invita all’esplorazione, alla tradizionale Pot Walk, curiosa e conviviale sulla via ritrosa del panegirico precolombiano, nel giro di boa del corso di Dio, nel tango dei carabineros e il fandango dei satiri dell’amore che fa levitare, lievito aureo come nelle arepas, tripudi in circolo danzanti sulle pelli iridate del Rio, sul rio diradato e specchiato delle ninfee, pittoriche ninfe odorose di orchidea e palissandro, perfezione in cerchio come per Anassimandro.
A settanta leghe e migliaia di chilometri da quel manto erboso e ligneo, errando e viaggiando da quel paese dal magico rimando – dalla politecnica di Colombia, per la Ceu San Pablo di Madrid, da Medellín a Milano –, l’architetto Andrés e i suoi compañeros hanno instaurato il loro domicilio in terra italiana, dando casa e respiro a quel figlio trapiantato dal ventre verde dell’America e innestato, come Neruda, nel terreno dell’Uomo: parola del profeta cileno, Pablo anch’egli, maestro dell’hablar e del sueño, filosofo e architetto, vicino alla morte e all’amore e residente, come tutti noi, nel dominio dell’intimo, lungo il fiume dei santi, nel bacino del tempo, nel sorriso da giaguaro e nei canti.
Mitú è esso un canto, un papiro privato che srotolo, il soffio poetico di un intero popolo.
La filosofia del design ha diritto di residenza in ogni via.
La sua dimora è lo spazio della contesa fra il gesto e la parola.



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