“Che cos’è un luogo?”, si domanda il filosofo prima della lettera, alla disperata ricerca di uno schema che ricorra, di un tema che ritorni, di un motivo che diradi la foschia avvolgentene il respiro ampio della comprensività.
“Che cos’è un luogo?”, si chiede il designer prima del tipo, alla caccia di un’intelligenza che immagini, produca, ordini gli schemi archetipici, facendo di un tema un’applicazione fedele a un motivo originario in grado di emergere da un più vasto e reticolato orizzonte di significati.
E di sensi. Sì, perché sebbene se ne abusi spesso, quella fra “sensi” e “significati” resta una somiglianza elettiva, una familiarità decisa dal punto di contatto fra sensori e neuroni, significazione e significatività: negli intermundia dello sfumato, nella sede dell’accordo fra sensazione e ragione risiede, in effetti, il luogo privilegiato dell’umanità tutta, dell’uomo in tutta la propria ilemorfica apertura alle cose stesse.
Proprio nella memoria – luogo privilegiato dell’incontro tra sensi e ragione-intelletto –, a ben vedere, prende forma la singolare compenetrazione della res extensa e della res cogitans, già batterio dell’irrisolto scervellamento cartesiano.
Come mettere in comunicazione l’estensione e il pensiero?
Qual è il linguaggio comune a queste “sostanze”?
Qual il luogo linguistico-materico capace di rompere un tale irriducibile dualismo?
Qual è la casa del sensibile? E del neurale?
Che ne è della matematica? E della finesse?
Nei suoi visionari Pensieri, Blaise Pascal, a scapito dei critici da bancone e degli esegeti da baraccone, avrebbe indicato nella via del cuore – quest’ultima figlia dell’evidenza senziente ben più che della superstizione pseudoscientifica – la strada verso la sinfonia a due voci che noi stessi siamo.
Nella memoria poetica più che in quella ippocampale, il razionalista estatico della promessa lucida avrebbe additato il percorso maestro verso il luogo della memoria, disegno filosofico dell’incidenza fra sensi e intelletto e, per questa stessa ragione, tempio dei nostri tempi multipli: tempi della narrazione e dell’attaccamento, epifanie della costruzione identitaria, tare della nostra medesimezza più vera, lingua del lucore e della filialità, filo conduttore che procede senza soluzioni di continuità dall’allattamento fino alla maturità, passando per le tappe più significative del nostro cammino memoriale scandito dalle emozioni e impresso nei ricordi.
Noi, con Pascal, non dubitiamo che i ricordi – in tutta la loro metaspaziale dilatazione precordiale – siano proprio i luoghi di cui eravamo in cerca, quelli della vividezza primigenia, del seme genetico, della preveggenza embrionale delle primizie, della nostra fantasticheria prima.
Nella revêrie – totem dell’immagine materna e culla del nostro esordio relazionale –, abita forse il segreto, il patto indicibile, la casa dell’essere-in-comune? Il luogo politico di un ricordo che è rientro e fuoriuscita, dentro-fuori gravido di futuro?
Questa sferza di interrogativi, scottanti tanto quanto la nostra neonata materia, reclamano risponditori nuovi: genealogisti della nascita, filosofi del design, artigiani della revêrie.
Norcineria Nobili: artigiani della revêrie



Nel grembo della revêrie, nella pancia della mia memoria fantastica, il nostro protagonista di oggi ha così preso forma, come l’acqua in Camilleri, come la materia al suo stato totipotente.
Norcineria Nobili è così venuto a galla: dall’humus appenninico dei suoi sottosuoli, in-su, in-avanti, come la filosofia, il design e ogni essere a noi conosciuto, è sfociato a Milano, carsico per adesione, fertile per irrigazione risorgiva e sdoppiamento, sorgivo per purezza e idealismo tra Lanzone e Bezzecca, dalla teca lignea degli universitari al richiamo omerico del suo ideatore, Laerte come il padre di Ulisse, odisseo del ricordo e quindi costruttore, come Odisseo, della tela senza speranza del riappaiamento alle origini, alla dimora, all’antefatto nostalgico di un imperfetto movente e irresoluto.
Io che di movenza e di irresolutezza ne so qualcosa, entro così nell’antro della memoria che si fa ricordo attraverso gli oggetti, nel ventre della matericità dicente della filosofia della coscienza, in quella rovente del design che parla di sé e con gli altri-da-noi pur restando dentro-di-noi.
Così mi addentro nel diaframma di Norcineria, entraña dal sapore intenso, quello bovino del cuoio prescelto e delle carni nobili come il cognome del norciniere Laerte, marito dell’aria aperta, degli allevamenti aperti, delle calcine nel pascolo aperto, frutti dell’afrore ispido del semibrado, brada residenza sul terreno del rispetto, malta nella composizione semovente e commovente dei cibi e degli arredi, toccanti come in Joyce, torrenziali come il flusso interno, complementi interni del cuore rammemorante che palpita a ritroso.
Nella mia atmosfera intima, tra le ritrosie e le discrezioni tipiche degli allevatori-cantori umbri, prende immediatamente piede l’infanzia, col suo passo di colomba e il suo tubare svelto tra l’intelletto e i sensi, nel raccordo dell’immagine, nel tempo continuato della densità, tra le pelli dei divani e i tavoli traslucidi che mi rabbrividiscono la pelle, tanto albergano dentro l’ostello bello dei jeux des enfants, nei giochi, nei moti, nelle parole dei nonni e la grazia irredenta di un centrino macchiato ricamato tra lo schienale alto in velluto e le macchie di mogano sperse dappertutto.
Nella mia memoria a specchio, tra le crepe remote degli specchi modernisti, emergenze floreali erompono dai quadri comuni, anch’essi remoti eppure così vicini, nel dramma e nel sogno, come la materia grigia e informe che si spande tutt’attorno, convolvolo profumato che mi circonvolge la testa con i suoi stami-ricordi, secrezioni sconosciute dall’odore del manicaretto, dell’affetto al casale, dei prodotti da casale che coccolano le papille con suoni familiari, gusti da cucinieri del ritorno, da artigiani dell’enogastronomia nel tornio dell’infanzia perduta e poi ritrovata con le mani e l’argilla, in ogni semenza, nei sensi tutti e in quell’intelligenza assurda e disperata, infedele e innamorata che dice dell’uomo, della filosofia, del design del suo bisogno di una requie al frastuono.
Nel grammofono di Norcineria Nobili risuona così una nenia di perla, che gracchia e volteggia, che punteggia in circolo: la sua nota è il calore, la nostra arte ne è il genio e l’odore.
La filosofia del design è una materia che scotta all’esterno e dall’interno.
Il suo sommovimento si agita nell’eterno.



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