©Lomotion, CDV. Una scena del film

Lo skyline si staglia sull’arancione slavato di un cielo torrido, che sembra non avere la forza per distinguersi dal colore, pallido a quell’ora, del sole seminascosto dietro gli edifici. L’aria è afosa e immobile. Una zoomata sui grattacieli e poi, più giù, l’inquadratura si sposta sulle strade deserte e sul movimento – lento e impercettibile – dei teli di protezione pendenti dalle impalcature, reti leggere biancastre come le case, come i viali deserti che ospitano, qua e là, un numero sparuto di alberi la cui chioma non è bastata a compiere alcuna opera di mitigazione climatica.
Non un’auto, una persona, un animale: la città vive dietro i vetri delle finestre riparate da tende oscuranti, nell’illusione di respingere i raggi roventi e troppo luminosi di un sole che non è più, da tempo, sinonimo di vita. Nel silenzio dei propri appartamenti, si trovano soluzioni per sopravvivere alla calura: ventilatori sempre accesi per trovare sollievo quando la temperatura insopportabile causa malessere; la maglietta nel freezer per tornare a scoprire, una volta tanto, il piacere del gelo sulla pelle.

©Matteo Triola Ph. Complesso residenziale Monte Amiata

Don’t let the sun è il lavoro di Jacqueline Zünd,che ha concorso al premio Cineasti del presente al Locarno Film Festival. È una produzione italo svizzera e per la regista – vincitrice di numerosi riconoscimenti internazionali – la prima esperienza di fiction dopo una serie di documentari.
49°: i led giallo intenso di un termometro digitale lampeggiano minacciosi sul tetto di un palazzo e, come ogni mattina all’alba, mentre il globo ardente compie un tratto della propria orbita emergendo dai grattacieli, una voce campionata ricorda ai cittadini che è giunta l’ora di rientrare in casa: “Dear citizens, the sun is about to rise”. Le attività quotidiane, ridotte al minimo, si svolgono di notte, quando le temperature permettono il movimento. Scuole, uffici, negozi svelano, al buio, una laboriosità rallentata e strane forme di solitudine nella surreale assenza della vita dinamica e caotica che conosciamo. Pochi abitano la città: chi ha potuto, l’ha lasciata per raggiungere mete più fresche e vivibili. Si stringono fra le persone rapporti umani rari, distanti, formalmente cortesi e indifferenti, per lo più. Intuendone la mancanza, per riabituarsi al contatto fisico qualcuno frequenta sessioni serali di allenamento all’abbraccio: strette fugaci, pochi secondi di vicinanza da provare e riprovare come si fa con una tecnica in disuso o un’arte antica da apprendere.

© Lomotion, CDV. Una scena del film

Se le tinte degli esterni sono sommesse e sbiadite, anche la colorazione degli alloggi offre la sensazione costante di essere immersi in un’afa intollerabile. Luci fioche illuminano una semioscurità che si affievolisce nelle tinte opache dell’arredamento; sabbia ingrigito, albicocca spento, camomilla, marroni pesanti: colori svuotati e privi di vita narrano il quieto sfinimento di un rapporto impari fra individui e clima. Bagliori accecanti filtrano fra le stecche delle tapparelle, tradendo la presenza pervasiva di un sole così vigoroso da sconfiggere ogni mero tentativo di estromissione.
Onnipresente come una coprotagonista, la città non svela facilmente i propri connotati: solo chi li conosce distingue i tratti di Saō Paulo del Brasile. I primi fotogrammi, però, traggono in inganno, perché condomìni di Genova (Pegli 3, Le Lavatrici) e Milano, i giardini di Porta Venezia, il viadotto sospeso del Portello, il Museo di Storia Naturale, l’area dismessa dell’ex macello e l’auditorium del Comune di Pioltello sono altre ambientazioni perfettamente inserite nel puzzle, del tutto credibile, che ricrea le sembianze di una città reale, multietnica, plasmata perfettamente sulle esigenze narrative.

©Matteo Triola Ph.  Monte Amiata, esterni

Sono i luoghi in cui Jonah, 28 anni (Levan Gelbakhiani, Pardo per la migliore interpretazione) – lavorando per un’agenzia che offre conforto agli stranieri sotto forma di relazioni sociali simulate – incontra la piccola Nika. Ingaggiato per farle da padre, dovrà fare i conti con il proprio modo di vivere e con le proprie fragilità.
L’immenso Dinosauro Rosso – esempio di edilizia popolare progettato nel 1967 da Carlo Aymonino e ubicato nel quartiere Gallaratese di Milano – è uno scenario cruciale nel film (nelle sale nel 2026). Il complesso residenziale Monte Amiata, questo è il suo vero nome, è una città nella città, della quale non include alcun richiamo semantico, culturale né stilistico. Comprende cinque edifici diversi (uno dei quali è disegnato da Aldo Rossi) che contengono le 450 unità abitative, i negozi e i luoghi destinati al tempo libero. Il disordine planimetrico voluto in cui essi sono collocati serve a scongiurare la ripetitività modulare; fra di loro si incuneano tre piazze, ideate dal progettista come luoghi di socializzazione, e sono uniti da passerelle sospese e passaggi coperti, che rendono i percorsi vari e imprevedibili.

©Matteo Triola Ph. Monte Amiata, esterni

Riflettendo sull’Unité d’Habitation di Le Corbusier per evitare di incorrere negli errori di valutazione da lui commessi, il progettista se ne discosta decidendo, fra le altre cose, di dipingere gli esterni e le parti comuni. Il colore inserito nell’arredo urbano ha funzione strategica, rende lo spazio più inclusivo e tende a limitare gli atti vandalici. In una scena del film, l’accostamento di giallo e rosso nell’androne percorso dai tre protagonisti è un palese riferimento al clima, oltre che metafora dei sentimenti contrastanti che li pervadono.

© Matteo Triola Ph. Monte Amiata, spazi comuni

L’intento della regista zurighese non è quello di dipingere un futuro distopico inevitabile, bensì – spiega – ha immaginato una delle alternative possibili, ha avanzato un’ipotesi. Gli edifici esprimono la durezza di una realtà complessa a confronto con la fragilità delle persone e delle relazioni, mutevoli al variare delle condizioni esterne, così come i desideri più profondi di ognuno si modificano in relazione al contesto.
È provato che il consumo di psicofarmaci cresca in maniera direttamente proporzionale all’aumento delle temperature e sembra paradossale che, oggi, si aspetti ancora con ansia l’arrivo dell’estate in un momento caratterizzato da climi sempre più torridi. Contraddizioni come questa emergono, nell’opera, attraverso il paradosso che la segna profondamente: nel caldo eccessivo manca calore umano.
Il film, girato quasi sempre di notte, offre – pur nella cupezza di alcune scene – momenti di rara poesia, grazie all’interpretazione e all’espressività degli attori, oltre che all’ottima fotografia. I dialoghi sono ridotti all’osso: la temperatura insopportabile, sperimentata realmente dal cast durante le riprese – in agosto, a Milano il termometro segnava 40° – non ha incoraggiato la comunicazione e questo ha reso l’opera particolarmente scarna e minimalista. Singolare è la commistione fra architetture diverse che, nella pellicola, sembrano la stessa, fondendosi una nell’altra senza soluzione di continuità: la celebre struttura a doppia rampa, color terracotta chiaro, delle scale esterne delle Lavatrici rientra anch’essa fra le scenografie ricorrenti.

(l’ho trovata su un articolo di Design Tellers!). Complesso residenziale Pegli 3, scala

Un finale aperto lascia spazio alla speranza nonostante i grandi cambiamenti del mondo, riassunti nella frase emblematica di Jonah a Nika: “You know, when I was your age everyone liked the sun”.

© Lomotion, CDV. Una scena del film

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