Abbiamo incontrato Antonio Aricò nella sua casa studio milanese in una mattina di inizio marzo e gli abbiamo posto qualche domanda sulla sua estetica e sul suo senso progettuale, circondati dagli oggetti che popolano i suoi ambienti e che raccontano storie di tradizione e cultura popolare. 

DT – Ciao Antonio e grazie mille per averci fatto entrare nel mondo Aricò. La prima domanda che vorrei farti e la mia curiosità più grande è quella di parlarci di questo mondo che esprimi e che è fortemente legato all’ambiente mediterraneo, al concetto di radici culturali e di estetica legata alla terra.

AC – Il discorso del Mediterraneo per me è legato ad una questione di origini, radici ed entità. Io da giovane ho lasciato la mia terra, la Calabria, per studiare design industriale a Milano dove ho avuto effettivamente la fortuna di incontrare la mia grande passione che ho successivamente approfondito girando un po’ il mondo e studiando in diverse situazioni. Il discorso del Mediterraneo è molto legato ad un aspetto di autenticità e onestà progettuale. Uno studioso creativo che inizia ad approcciare il mondo della progettazione nota che viene influenzato facilmente dai trend storici culturali e contemporanei, quindi la mia idea era quella di apportare una rivoluzione contro gli schemi imposti e provare a seguire l’istinto di essere onesto dal punto di vista progettuale. Devo ammettere che con un background culturale così ricco di colori, forme e tradizioni, alla fine il mio percorso di progettista è stato un percorso molto naturale ma non facile.

DT – All’interno delle tue opere si ritrovano dei riferimenti culturali precisi che ci riportano ad epoche passate e ci fanno pensare ai racconti degli eroi Omero dell’Iliade, della Magna Grecia e degli Dei dell’Olimpo. Ma è presente anche una poetica attuale che ricorda alcune realizzazioni di Riccardo Dalisi e quel design contemporaneo che celebra l’effimero. Come gestisci due influenze cosi apparentemente contrastanti nella gestione dei progetti? 

AC – Questo è esattamente lo stimolo che alimenta la mia giornata creativa, questa continua ambiguità tra la tradizione e l’innovazione. Inizialmente questa esigenza di raccontare la storia era legata molto al concetto di famiglia, di artigianato e di tradizione. Nella mia famiglia di origine mio nonno è falegname e mio zio cuoco, quindi sono cresciuto in un ambiente permeato dai concetti di genuinità e qualità. Con mio nonno ho iniziato a ricreare nel suo laboratorio una serie di archetipi che sono comuni non soltanto alla cultura mediterranea ma a quella italiana in genere, partendo da un concetto molto semplice e quotidiano: il vernacolare. Successivamente sono stato influenzato dal mondo milanese, dalla moda, dal design, dall’arte e ho sviluppato un gioco di protesta poetica, un gioco in cui posso essere contemporaneamente contro e con, un gioco di equilibri labili e in continua evoluzione. Il mio gusto estetico personale mi porta a preferire soggetti semplici, i materiali puri come il legno, la terracotta, la ceramica, il lino, la lana, a cui associo un mondo decorativo dell’illustrazione pop perché anche in questo processo cerco di essere onesto con me stesso. Chi visita la Calabria nota subito la presenza di grandi richiami alla Grecia antica, non soltanto dal punto di vista naturalistico e paesaggistico ma proprio a livello di tradizioni e superstizioni quotidiane. Ci sono ancora alcuni piccoli paesi dell’entroterra dove si parla il greco antico, il Grecanico, e questi sono elementi reali e quotidiani, imprescindibili.

DT – Sei un designer e un artista del terzo millennio e naturalmente comunichi anche tramite i social media: oltre alla produzione dei tuoi progetti di tanto in tanto dai tuoi canali social tiri l’orecchio in maniera bonaria al design mainstream e reinterpreti oggetti icone di Starck, Magistretti, Ponti. Come ti rapporti a questo tipo di design industriale che ci ha preceduti e ci ha in qualche modo obbligati a rapportarci con quell’esperienza? 

AC – Io mi sento un’industrial designer a tutti gli effetti, ho un background tecnico, trovo piacere nel rispondere ai brief delle aziende, a collaborare con il marketing e a unire un discorso umanistico e poetico a un discorso di business, perché se da un lato mi piace molto il mondo decorativo, dall’altro il mio vero lavoro è rispondere a brief progettuali. Sui miei canali social sono più conosciuto per questo ambito narrativo e poetico, mi sono fatto conoscere grazie a queste storie molto utopistiche e interagisco con un lavoro che a che fare con l’inconscio e la psiche. L’altra faccia della medaglia è quella che mi permette di lavorare da tanti anni con delle grandi multinazionali come Barilla o Mulino Bianco per cui ho disegnato dei prodotti che magari sono presenti nelle case degli italiani ma che nessuno sa che ho realizzato io. Nella mia visione artistica quello è il vero lavoro del designer, che non ha bisogno di creare una particolare allure attorno alla sua attività perché si esprime attraverso un design vero e domestico; la parte narrativa invece è un vero e proprio laboratorio di ricerca e sviluppo, è il momento in cui realizzo la mia visione. Credo fermamente che soltanto se sei calato appieno nel contemporaneo riesci ad essere affascinato da qualcosa che si presenta come esotico e lontano. 

DT – Vorrei che mi parlassi della tua attività di art director di Materia design festival di Catanzaro. Cosa significa occuparsi della direzione artistica di un festival di design in una zona come quella della Calabria, così geograficamente lontana dalle aree canoniche di ideazione e produzione del design cosiddetto “classico”?

AC – Quando sono stato invitato quattro anni fa per la prima volta come ospite in questo festival mi sono ritrovato inaspettatamente all’interno di una vera e propria Design Week a Catanzaro. Dopo quella prima esperienza come designer gli organizzatori mi hanno invitato dopo due anni ad occuparmi della direzione artistica del Festival. Abbiamo trovato subito l’intesa perché all’interno di quel festival posso esprimere il mio tipo di gusto estetico. Siamo abituati ad associare i luoghi del design a città come Milano, Berlino, Shangai, Parigi e New York ma per me, proprio dall’esperienza maturata in laboratorio con mio nonno, è nata quella concezione del dietro le quinte, degli artigiani che lavorano ancora a mano determinati tipi di oggetti. Nonostante Catanzaro sia considerata forse la città più brutta d’Italia, per me la sfida è stata quella di trovare un senso estetico generale all’interno di un territorio che non è abituato ad un design festival. L’adrenalina che ti dà un’esperienza di questo tipo è indescrivibile, parlando anche in termini di persone, materiali, suoni, accenti, tradizioni, odori e sono davvero molto soddisfatto di aver accettato questa avventura.

DT – Ho molto apprezzato la recente collaborazione con Callipo per la realizzazione del packaging della confezione di un panettone. È un progetto che getta un ponte lunghissimo che attraversa tutta l’Italia e unisce nord e sud in maniera potente. Pur non occupandosi principalmente di prodotti dolciari, Callipo ha realizzato questo progetto: ci vuoi raccontare la storia di questa collaborazione e di come si è sviluppata?

AC – Durante il periodo del lockdown dell’anno scorso, sono stato tanto tempo chiuso all’interno della mia casa e ho effettuato una riflessione che mi ha portato più sul lato del design grafico che non su quello del design di prodotto. Quello dell’illustrazione grafica è un tema che mi viene abbastanza naturale ma che avevo messo un po’ da parte perché come designer ho sempre utilizzato il disegno per creare i bozzetti funzionali alla creazione di oggetti. In un periodo in cui la materia era bloccata da un punto di vista organizzativo, la grafica invece poteva essere espressa liberamente. Attraverso la fusione di uno storytelling preciso, l’utilizzo della stampa su materiali diversi, la narrazione con colori naturali uniti a quelli pop, questa collaborazione è stata sviluppata in maniera molto felice e tra l’altro è stata la prima collaborazione con un’azienda calabrese. È stata quindi un’altra occasione per cercare di cambiare un po’ l’approccio progettuale perché normalmente il sogno dei giovani designer è quello di disegnare per aziende come Alessi, Kartell, Flos. Dei miei sogni di studente di design per esempio alcuni sono realizzati e altri no, ma il fatto di decidere di andare sempre un po’ controcorrente è stata una bella sfida.  Questo tipo di approccio può dimostrare un lato diverso del design business e può offrire un esempio per le generazioni successive. Ricevo molti feedback da designer calabresi che mi dicono di essere tornati a lavorare al telaio o con materiali poveri o su progetti legati alla tradizione. E per me è proprio quello lo stimolo più grande, il designer deve portare il bello e il nuovo esattamente lì dove ce n’è bisogno.