“Tecno-logia” (téchne-lògos), come del resto accade a tutto ciò che è vasto e polisenso, assume spesso dei certi qual contorni di ambiguità: moltitudine di significati in uno, molteplicità di vie d’esercizio e ginepraio d’usi, essa rappresenta in effetti un’eccedenza, un’essudazione. Capace di infiltrarsi e risiedere nei più disparati angoli di senso, la tecnologia è una prassi unica nel suo genere.
“Prassi” o, per meglio dire, “pratica” è, del termine greco “téchne”, la traduzione probabilmente più fedele, di certo quella più originaria. “Lògos”, ellenico quanto il primo elemento del composto semantico in esame, è addirittura più archetipico di téchne, essendone la sorgente, il verbo, l’atto primigenio, l’immaginazione creatrice. Lògos è, per Eraclito, il fuoco del cosmo: principio creatore, fiamma immanente, ragione del tutto.
L’incontro-scontro con i decani del concetto mette dunque in luce l’originalità di tale “tecnica” (a loro ignota in alcune delle sue tracce, ma non per questo meno presente, tanto nel dire quanto nel fare), ben lontana dalle tecniche tradizionali, tanto da spingersi al di fuori di sé, dello spazio dell’“artigianato”, ambendo spudoratamente a quello dell’arte: allo statuto di “arte”.
La tecnologia – “artigianato e più che artigianato”, “ingegno della pratica” – non è che l’arte dell’incontro, la filosofia della scienza, l’architettura del concreto. Teoria e prassi a un tempo, essa si distingue da tutte le altre tecniche per quella sua propria coscienza delle sue azioni, dei limiti delle stesse e delle responsabilità ad esse irrimediabilmente connesse.
Nel 2024, la tecnologia dovrebbe (il condizionale, oggi più che mai, è d’obbligo) quindi connotarsi come la coscienza responsabile dell’incontro tra tecniche – tra tecniche digitali – e uomo, tra tecniche e natura, tra tecniche e mondo.
Che cos’è, infatti, il mondo se non l’esperienza con-vissuta dell’uomo e della natura sulla Terra?
In quest’ordine di idee, le tecnologie hanno il dovere etico di spogliarsi dei loro costumi da conquistadores della distopia e riprendere l’iniziatico percorso verso la natura sacrale e indigena, spirito ancestrale, voce visibile di Gaia, dell’organismo vivente che noi stessi siamo.

È di quest’idea Michele Versaci (fondatore della pratica EX), architetto architettante – insieme ad Andrea Cassi (co-fondatore della pratica EX) e Giorgio Ferrero (MYBOSSWAS),con la curatela di Nicola Ricciardi (Direttore Artistico di Miart) – l’installazione “Materia Natura”. Attore del più ampio “Materia Natura: Conversazioni con Portanuova”, e autentica epitome della Milano Design Week 2024, il titolo compendia chiaramente ed esclamativamente l’intento aurorale dei suoi autori.
L’installazione immersiva, risposta video alle domande impellenti posteci dai suoi ideatori, e disposte lungo il perimetro dell’opera quasi ad affermarne il disegno, delimitarne i fini e  custodirne lo spazio – lo spazio del dialogo intimo tra uomo e natura, quello sicuro e generativo di una nuova alleanza –, vede come protagonisti un blocco di lava vulcanica proveniente dall’Etna, a pensarne e animarne, come il lògos eracliteo, i valori e gli scopi; un campione di gneiss della val di Susa, a rafforzarne la volontà e indicarne i limiti; un ramo di legno a rinverdirne le primizie e a costruire l’abitazione dell’incontro; un blocco di ghiaccio, a scandirne le stagioni e ad eternarne la nobiltà e, infine, un blocco di onice bianco, a impreziosirne le fattezze: veste purissima ad abbigliarla del candore di una bellezza etica (estetica) che non sa ferire.
A detta di Versaci, l’uomo – quello sì – ha invece ferito eccome: forte del suo «scientia est potentia», del suo motto capitale, ha previsto, impreso, posseduto, capitalizzato, offeso. Offeso la natura diventandone l’aguzzino; ha nondimeno offeso se stesso, non prevedendo a sufficienza, non prevedendosi, intelligendosi, sentendosi in quanto vivente-esistente; non preconizzando, in ultimo, gli esiti nefasti e mortiferi della sua propria condotta innaturale, anti-naturale.

Rappresentazione visiva di un appello pluridisciplinare e multimediale permeato di “enticità organicistica” e di pacifica combattività, “Materia Natura” è un inno alla traccia: a tracciare le nuove linee guida del design in quanto particolare traccia dell’esperienza naturale dell’uomo sulla Terra, nel rispetto delle istanze in-tematizzabili di una natura altra da noi, portatrice d’interesse distinta e complementare, ma mai separata né separabile dalla nostra parabola: parabola, appunto, da “tecnologi dell’arte”, da “architetti della tecnica”, da “filosofi del tatto”, da “designer dello spazio-mondo”.
Di là dall’autistico panismo dannunziano, è solo nella conversazione, nel contatto, nel tatto del diverso congeniale, della “persona materica” che il design – quale parola digitale dello spazio estetico dell’incontro – può scoprire e riscoprirsi l’araldo e il messaggero di una nuova apertura: di un’apertura che faccia della cura la sua coniugazione d’essere e della voce tenue degli elementi, un canto e l’annunciazione di una verbalità altra, di una “parola materica”.

«Come la natura ispira il design?»

La natura può ispirare il design in quanto “idiofonia”, in quanto suono di volta in volta riproducibile grazie all’esclusivo e inclusivo esercizio della propria materialità, della propria matericità, della propria consistenza, della propria “quidditas”.
E qual è la quidditas – l’essenza – tanto della natura quanto del design? Essere se stessi, reciprocamente se stessi: tecnologicamente, sostenibilmente, eticamente. Nel rispetto delle rispettive tracce, pro-curarsi un nuovo spazio in cui con-essere, diversi e alleati, avendo cura l’uno dell’altra.

Non è forse questo il segreto di ogni grande storia d’amore?