In un’era radicata nell’angusto tempo del presente, ci si chiede se sia ancora possibile e, nondimeno, utile ripensarsi e ripensare lo spazio in maniera molteplice, diacronica, spirituale.
Ci si chiede se sia utile, a conti fatti, affidarsi alla bellezza più che all’estetismo, alla comprensione più che al tecnicismo, all’inclusione più che all’esclusivismo, alla condivisione più che all’imperialismo. Non è utile, non se ne dubiti. “Utile”? Sì, pare infatti che, nello stanco mattino del 2024, l’utilità sia l’unico nitore, l’unica cartina, l’unico indicatore, il solo riconoscimento per chicchessia. Ma è poi davvero così?
L’utilità è solida. L’utilità è esatta. E l’architettura, a ben vedere, non può fare a meno né della solidità né tantomeno dell’esattezza. Su questi capisaldi, sui piedritti della sua stessa costituzione, infatti, non può che appoggiarsi e appoggiare – utilmente, costitutivamente, strutturalmente – il suo architrave, la sua essenza, la sua archetipica bandiera di “arte della conquista”.
Scivolando a ritroso nelle stanze del passato, a partire dagli elleni, transitando per i romani, fino a giungere alla contemporaneità, “archi-tettura” (commistione del greco “arché” e della latina “tectura”) è sempre stata sinonimo di “cultura”, di “colonizzazione”, di “civilizzazione” e, in fondo, di “appropriazione”. Si architetta per appropriarsi e ci si appropria di un luogo per architettarne ogni aspetto, per dominarne ogni anfratto, per lasciargli e lasciare la propria firma, un marchio riconoscibile, un sigillo di possesso. “Possesso”? Eh già, possesso, che domande! Sono un naïf, uno spaesato, non credete? Mi si scusi l’imperdonabile candore!
Da Talete in poi, in effetti, il filosofo si è sempre distinto per questa sua proverbiale trasognatezza: “tautologica”, “infine”, “inutile”.
La filosofia non è un buon mezzo, miei cari lettori, diffidatene!
L’architettura è il luogo forte ed esatto dell’appropriazione architettonica e la filosofia rappresenta la debole e sedicente architettonica del vero. Sono isole distinte e, in quanto isole, separate, non-comunicanti.
E se, contro i pronostici, ad absurdum, fosse possibile architettare un ponte filosofico e riunire, così, la scienza della costruzione e quella dei costrutti in un’alleanza libera, in un magnifico arcipelago?
È quello che proveremo a scoprire in La filosofia dell’architettura, il mio nuovo editoriale.
LE LINGUE DELLO SPAZIO
Non-saturazione e apertura: l’Officina del Riso
Cos’è lo spazio?
Sono un ingenuo, non ricordate? La mia ingenuità mi spinge, spesso controvoglia, a pormi delle domande scomode, proprio perché non posso fare a meno di scomodarne l’apparente comodità. Sono un vizioso della domanda! Viziato di nuovi orizzonti e sguardi inediti sul mondo, il mio temperamento è condannato alla precarietà di interrogazioni senza risposta.
Se, d’altra parte, dovessi azzardarne una, di risposta, sarebbe la seguente: lo spazio è spiritualità. Così, almeno, avrebbe prontamente affermato Platone, per il quale la chôra ero uno spazio oscuro e indefinibile, un bosco fitto e misterioso in cui Timeo, il demiurgo, da buon architetto cosmico, era costretto ad operare, a costruire, ad architettare modi di afferrare, di delimitare, di definire, di fissare questo «torrente in perenne movimento».
È proprio da tale ansia di contenimento, da tale angoscia di specificazione, da tale spaesatezza esistenziale, da tale “lingua dello spazio” (e dell’uomo) che, forse, il dialogo tra architettura e filosofia può prendere il via e mettersi in moto: farsi sapiente, costruttivo dicente.
Lo spazio è il luogo d’incontro tra filosofia e architettura. È il luogo della precarietà umana, quest’ultima perennemente sospinta, proprio come l’arcano torrente platonico, verso la conoscenza, e protesa verso l’alto, affamata di verticalità e di determinazione.
Lo spazio è il nostro mondo: un mondo di volta in volta esistito al fine di esorcizzare la “spaesatezza”.
Il mondo di cui parleremo oggi è quello di “Officina del Riso”. Il mondo (se per mondo, difatti, non intendiamo che la nostra presentazione all’Altro, il nostro orizzonte, la nostra abitazione) di Luca Gruttadauria, la sua lingua.
L’Officina è, del resto, uno spazio bilingue, nato dall’abbraccio di due cucine, di due culture, di due architetture. I suoi sinogrammi, giapponesi nella forma e italiani nel DNA, dicono, letteralmente, di «Risotti, rolls & more». Risotti, quale espressione multilingue della mantecatura occidentale di Officina; rolls (gunkan, per la precisione), a scrivere a caratteri cubitali – in torii – la costruzione di un portale “non-saturo e aperto”, di un mondo accessibile a tutti. Officina del Riso è, in effetti, un luogo insaturo ma ricco: di contaminazioni, di suggestioni, di linguaggi. Un posto che, a detta del suo stesso fondatore, non è però sprovvisto di zone cieche, di ombre, di insicurezze.
Le insicurezze dello stesso Luca, per esempio. Quest’ultimo non nega infatti che la contro-immagine del suo proprio mondo, in quanto tale, possa e, addirittura, debba essere fallibile, frangibile, perfettibile: incompleta in quanto vera.
Officina del Riso è, in un certo qual modo, peculiare e originario, un inno all’ “in-completezza”. Non all’incompiutezza, si badi. Bensì a quell’incompletezza che è il sale del discorso umano, della sua apertura al mondo, del suo spazio condiviso.
“Spazio” è proprio – mi si permetta l’espressione – questa feconda incompletezza, questo schiudimento al futuro, questa babelica (sana) confusione che genera movimento, creatività, libertà.
Tale “assioma d’incompletezza” – unito all’ardesia poliglotta dei suoi piatti imbanditi, all’umiltà fervida delle sue mura tardoindustriali, di quei suoi materiali poveri di una ricchezza altra e della calorosa distensione del suo spirito in perpetuo rinnovamento – rende Officina del Riso un progetto auto-progettantesi, un disegno astratto, un crogiolo di possibilità infinite.
Luca e la sua Officina rappresentano, in fondo, un invito all’ “im-pensato”: un luogo di senso e corrispondenze in cui filosofia, architettura, cucina e tutte le altre tracce dell’esperienza umana su questa terra possano finalmente incontrarsi e completarsi in uno spazio con-vissuto nel quale essere-nel-mondo, in cui non sentirsi più spaesati.
Cover credits: © A. Bravini