Che quella di “spazio” si limiti ad essere una categoria o, più precisamente, un “universale” è, forse, il postulato che il lettore più avveduto potrebbe aver dedotto dalla lettura filosofica dell’architettura fin qui esposta all’interno nella nostra rubrica, dalla nostra opera filosofale inevitabilmente rivolta alle origini e, nondimeno, alle cause finali, a quelle ultime.
La nostra, però, è anche tanto altro: è un’impresa che parla agli uomini, che racconta di storie spazializzate di architetti-filosofi perennemente tesi, vagolanti sul filo dell’incertezza, corpi bisognevoli, spiriti bisognosi di un rifugio, di una casa architettonicamente solida che sappia custodirne ogni sana avventatezza, ogni arditezza di pensiero, ogni trasognatezza dell’azione, ogni desiderio di costruzione.
In tal senso, lo “spazio” fin qui inteso è sì un “universale”, ma è allo stesso tempo ben di più: è esser-ci in un mondo-sfondo in cui, appunto, costruire: costruire e costruirsi a partire da un orizzonte di senso, di senso spaziale, di disegno personale dei luoghi di volta in volta vissuti, congegnati, arredati.
Spazi, luoghi, persone: è proprio questa, a ben vedere, a guardare sul fondo, la terna aurea e l’imbastitura dialettica della cooperazione multilivello tra esistenti e mondo, tra viventi e ambiente. Perpendicolarmente all’ordito della storia, va così dipanandosi l’articolata trama della “costruzione” in quanto taglio interpretativo, intendimento fra i diversi tessuti del reale, forma privilegiata, indispensabile dispositivo del vivere in sé e per gli altri, punto mediale del con-vissuto.
La nostra filosofia dell’architettura narra segnatamente di quest’esigenza, di un “non-necessario”, e non per questo meno essenziale, bisogno di spazi della condivisione, di luoghi raccolti in cui scambiarsi le intimità e confidarsi i sogni, nei quali raccogliersi e accorciare le distanze.
È nel segno di questo “raccoglimento” che l’idea romantica di “bistrot” – autentico santuario della vicinanza – ha visto la luce. Dal cirillico «bystro» (invito al “fare in fretta”, esortazione che pare fosse la più gettonata tra i soldati russi del primo ‘800, tutti intenti com’erano a mettere a ferro e fuoco la città dei lumi senza però privarsi dei suoi piatti più prelibati, esigiti dagli osti prigionieri, dagli incolpevoli gregari del napoleonismo), fino ad arrivare al più noto, transalpino «bistroquet», atto a denominare i vignaioli più capaci, quelli ebbri di vita, visioni e dei vini più dolci della Senna, di quei succhi dei poeti e dei pittori che erano soliti gremire i bistrot della Parigi dell’epoca bella, quest’ultima entusiastica quintessenza dell’osmosi di stili tra Montparnasse e Montmartre nonché di quell’umana troppo umana “necessità di fatto”, del suddetto, originario bisogno di semplicità, di contatto, di vicinanza fisica e, soprattutto, metafisica.
È nel cuore semplice di questa terna, stufo della “sofisticazione”, dell’ “abulia”, della “prossimità” senz’anima del proprio ambiente lavorativo, che Francesco Zanoletti ha ritrovato l’elettricità, i battiti e una nuova rampa di lancio verso la ricerca di se stesso, di quegli “affari di cuore” che ha scoperto essere quelli a lui più cari, nel nucleo pulsante della Francia dei vini e delle ostriche, tra i cortili color glicine della Provenza e le rustiche roccaforti della Borgogna, carminie come l’impeto tramontante di una pagina di diritto e il diritto albeggiante a un’altra vita.
Ostriche e Vino: storia di un rifugio urbano
È così che, circa vent’anni fa, Francesco si è finalmente risolto a scegliersi e a scegliere di concepire e di partorire – insieme al socio Vittorio Fenoglio – Ostriche e Vino, figlio del sacrosanto “diritto alla vicinanza”, e naturalmente di una spregiudicatezza, di un rischio, di un’inclinazione al raccoglimento, di un’aspirazione alla “calorosità” essenziale della scoperta e dell’incontro, di «quegli incontri», memorabili per Pavese e per noi tutti, progenie di quella – sua, nostra, rispettiva – mitopoietica ricerca della raison d’être, della ragione prima dell’essere, del filosofare, dell’architettare.
Ostriche e Vino, pertanto, rappresenta una certa qual “architettura dell’apertura”, un’originale “filosofia dell’essenziale” che aneli al “personale non-elitario”, all’ “intimo non-esclusivo”.
Dalla passione arrischiata e generativa di Francesco, e dal suo voto – atipico, politicamente scorretto e, proprio per questo, poetico fino al paradosso – all’inclusione, alla socializzazione del lusso, del gusto, dello spazio, è così venuto al mondo il bistrot della gente, quello delle fine de claire a buon mercato, degli charmat lustri ma abbordabili. Francesco, con i piedi ben fissati alla terra di Col di Lana e il busto errante da bistroteque, nelle vesti e i grembiuli da scultore flâneur dell’enogastronomia, solo così ha potuto compiersi: tra i tralci francesi e nello spirito di un giurista che indaga, dell’ittiologo che ristora, del ristoratore che cura.
Con in mente i vini e le ostriche d’Oltralpe, sfatando miti, sdoganando cliché, ingegnandosi in modi inediti, l’osteria a mo’ di bistrot si è fatta concretezza, uva matura, perla opalescente. L’affinamento, durato qualche anno, ha imbottigliato i sogni di Francesco e Vittorio, profumando il loro giardino-progetto di arie salse e della lavanda delle purpuree esperienze francesi, rendendolo crepuscolare ed elegante, modesto eppure nient’affatto umile, come i canti pascoliani o quel progetto fattosi spazio, luogo della calorosità, rifugio urbano tutto da inventare.
Una grammatica del calore, quindi, a punteggiare un discorso partito da lontano: da un atto di coraggio, di ribellione nei confronti dei costumi imperanti, dei luoghi dello sfoggio, dei topoi dell’establishment. Ostriche e Vino è, in questo senso, una nota fuori dal coro: un pentagramma nei cui spazi, Francesco e Vittorio, nonostante la cacofonia dell’ “anti-raccolto” dilagante, hanno composto la loro inusitata, peculiare architettura della ristorazione, concepita appunto come calorosità, vicinanza, raccoglimento.
Nel loro bistrot dell’ascesi, in una società nella società al riparo dai frastuoni muti e dai clamori invadenti della Milano anti-sociale, di là dai volumi gravi del mastodontico, posticcio sistema dominante, Francesco e Vittorio hanno posto le basi del loro ennesimo viaggio: tra i quadretti marinareschi delle tovaglie biancoblu, nel palissandro delle gambe dei tavoli – legnoso promemoria dei loro primordi, verdi come i cerchi concentrici nella corteccia della loro freschezza senza età –, nel candore stearico delle candele che illuminano, ceree e persistenti, le postazioni veraci, oneste di un’onestà altra, di quella tipica del trobar plan e dei trovatori di manoscritti, di campi, di ostriche, di vino. Tra gli olivi, i cipressi e le erbe aromatiche di respiro preletterario, infine, va distinguendosi il cortile interno, provenzale anch’esso, con le sue veneziane – in legno, della tonalità del legno –, finte ma vere, presentazione con pretese di verità, spaccato in controluce delle velleità romantiche di due architetti della semantica dell’accoglienza.
Nei toni caldi e minerali di Ostriche e Vino, nelle sue flûtes temperate dalla calorosità di una rara nobiltà d’intenti, spumeggiano infatti gli arpeggi palpitanti e i lustrini tenui di una sintesi granitica: accogliere, ristorare, avvicinare. Non è forse questa la migliore delle religioni possibili?
La filosofia dell’architettura è una condotta di vita.