Il più illustre degli “scugnizzi” napoletani, storico foggiatore del mestiere di storico, raffinato artefice delle furbizie intellettuali più ardite – Giambattista Vico –, già trecent’anni fa, tesseva le lodi del “situazionismo”, del “mestiere di vivere” largamente inteso in quanto spaziatura di significato a metà fra il “senso personale” e quello che, non senza sardonica e aristocratica vanità, era solito chiamare “sensus communis”.
Che un senso comune esista, ebbene, è nozione diffusa sin dall’antichità: tanto l’architettura – nei panni di “cultura della costruzione” – quanto la filosofia – nelle vesti di “dialettica dell’universale”, infatti, hanno sempre mirato, con differente ma analogo impeto, alla comprensione totale, alla diffusione onnipervasiva, alla colonizzazione spaziale e intellettuale, intellettuale e spaziale a un tempo. Dalla Magna Grecia fino al Regno delle due Sicilie, in sella al divenire dei secoli e al trascorrere delle stagioni del gusto e del pensiero, pur cambiando abiti e costumi, la vichiana “scienza nuova” – la Storia – si è, in effetti, conservata intatta nei principi e nei fini, ri-architettandosi e ri-pensandosi, di volta in volta, attraverso i sensi, le menti e le memorie dei suoi attori protagonisti.
Non v’è, pertanto, “fatto” che non sia “vero”; non c’è “vero” se non nel “fatto”, mai al di fuori della sfera del vissuto: non v’è verità se non nel dominio dell’autodafé, nello spazio di ciò di cui si è stati artefici: “verum et factum convertuntur”.
La politica del “fare” come senso legittimante della storia e unica via d’accesso alla conoscenza è, invero, prerogativa dell’architettura più che della filosofia, quest’ultima, da par suo, maggiormente votata alla speculazione, alla riflessione, alla critica crepuscolare, essendo solita sopraggiungere, come la proverbiale nottola hegeliana, «sul far della sera». Diremmo dunque che la storia, in un certo qual modo, sia intendibile come una scienza di frontiera, come lo sdoganamento fattivo dei confini tra “teoresi” e “prassi”, “essere e creare”, tra, appunto, “il filosofare” e l’“architettare”.
La Storia sì detta – esperienza umana di uno spazio convissuto, con-essere trans-temporale in una pluralità di mondi dotati di senso – affonda quindi le proprie radici nel terreno franoso della memoria e, nondimeno, in quello paradossale dello scontro-incontro tra “particolare” e “universale”, tra “privato” e “collettivo”. Per tutti coloro che vogliano dirsi “filosofi dell’architettura”, urge, pertanto, il compito di costruire un ponte: un ponte capace di connettere “sensi” e “intelletto” mediante il filtro della storia; un ponte che possa localizzarci nel “qui” e nell’ “ora” di un luogo familiare – di un luogo geograficamente localizzato, ricco di tradizioni e ricordi, ma non per questo disgiunto da quello globale, dal “mondo mondiale” –, di un luogo di volta in volta abitato e partecipato, luogo magmatico che riarde di sensitività, folklore e memoria.

Napoli 1820: sensitività, folklore, memoria            

Napoli 1820, sito milanese fiammeggiante di napoletanità, riarde certamente del medesimo spirito vulcanico, della stessa fiamma iperborea, di un’identica vampa a più creste. È tra le creste e le viuzze della terra di Ferdinando II di Borbone e i vicoli ciottolati dei mestieri milanesi, da Mergellina e più in là del Golfo, fin dentro e di fronte alle grazie liquide dell’Alzaia Naviglio Grande, per merito delle teste senzienti e pensanti, istoriate e futuranti di Antonio Izzo e del papà Rosario (e l’imperlamento tradizionale e veggente, florilegio genetico della nonna Elena), che Napoli 1820, figlio dell’indomita mamma campana dei moti rivoluzionari e del papà spagnolo dei quartieri della regalità, ha preso il largo, eruttando sogni, dipingendo l’acquerello biancoazzurro di una storia a due volti. I volti del padre e del figlio, stampa evocativa in aggetto sulla cucina del ristorante, dello spazio duplice e libero, dell’incontro inaudito tra due chiome e due biografie.

Nel vichiano “corso e ricorso storico”, tra i banchi del pesce e le novelle di strada fiutate e narrate dal “Nasone” Ferdinando, figlio anch’esso della rivoluzione e, forse, proprio per questo, irriducibile fino al romanzo: artista della crisi, vagabondo dei sensi, esteta e pioniere della pizza, saltimbanco dello “strummolo”, a ricalcitrare, trottare e sgambettare tra i quartieri, a “scugnare” con forza convinzioni, a trottoleggiare scalzando convenzioni e buonismi spagnoli in nome di un credo più alto: cercare e cercarsi fra i farinai e i banchi ittici degli italianissimi mercati rionali.
Quest’uomo enigmatico, vulcanico anch’esso, ha ispirato nell’ordine Elena, Rosario e Antonio, aspirando profumi, espirando costumi, traspirando passioni, impregnando e marchiando la loro parabola, fumo e magma di un viaggio sul punto di esplodere. Magmatico anch’esso, quello di Napoli 1820, è del resto il cammino dei corsi e dei ricorsi: del correre della lava del vulcano della leggenda, di quella impietrata tra le porosità delle pareti partenopee, nel quadro del Vesuvio che stilla piccanti superstizioni a fiotti, come nelle cavità azzurrissime del tufo che racchiude e custodisce la spaziatura degli Izzo e la loro leggenda in technicolor.
Nella roccia fusa del loro amore comune per la cucina, nel solco del pannello murale policromo, mosaico mistico che geometrizza e disvela, nello scolo dei grandi lavori della tradizione enologica campana, defluisce il dono sanguigno di una passione metastorica, tramandato di generazione in generazione, e via via distillata dall’alambicco dei temperamenti vari ma convergenti di due uomini e una donna sbocciati, sorti e insorti, come la ginestra, alle pendici del miracolo.

Verticalmente, nella sostanza trina della loro storia, le personalità di Napoli 1820 – persone di Napoli, gente cresciuta nel ventre della costiera, nei viottoli del mito popolare, tra le pareti calcinate dal sole e i murales del pibe de oro – hanno ricettato lo spazio della loro città, la città della sensitività, del folklore, della memoria.
Sedimentatasi anno dopo anno nel tufo accogliente della loro eredità, la ricetta di Napoli 1820 è nientemeno che una ricetta d’amore: la loro storia è la terra.