L’appartamento – oggi smantellato – si trova a Parigi, al settimo piano di un edificio dell’Avenue des Champs Élisées. Due terrazze lastricate in marmo candido, delimitate da pareti a scomparsa ricoperte da siepi, si susseguono prima che si raggiunga la terza, più vicina al cielo; perpendicolari a un inconsueto tappeto erboso, pareti bianche creano quinte che nascondono la vista del “triste deserto dei tetti e dei camini” (cit. Le Corbusier). La conformazione dei muri, progettata ad arte, permette agli astanti di percorrere con gli occhi la passeggiata architettonica, ammirando in sequenza i luoghi sacri della Ville Lumière che lì si materializzano, incastonati nel fondale latteo: l’Arc de Triomphe, la Tour Eiffel, la chiesa del Sacré-Coeur e, da ultimo, la linea – verdissima – degli Champs-Elysées che, oltre i giardini delle Tuileries,conduce a Notre-Dame. È un cammino concettuale che consente di cogliere in maniera mai sperimentata l’essenza della città, decontestualizzandone uno ad uno gli elementi, e trasformando Parigi in un luogo irreale, mitico, poetico.

Sul prato, due sedie bianche in ferro battuto si trovano ai lati di un tanto inutile quanto scenografico caminetto Luigi XV – su cui poggiano un orologio dorato e due candelabri – sovrastato a sua volta da uno specchio che riflette muro e cielo in due semiovali identici, ostentando un ceruleo cielo magrittiano. Sul suo trespolo, un pappagallo variopinto, rigorosamente finto, completa la scena, producendo il contrasto di colore necessario all’allestimento.
Nella ricostruzione, cromaticamente fredda, di un décor per interni nel contesto stridente di uno spazio aperto racchiuso fra pareti puriste, il mobilio barocco sistemato sull’erba spicca sul bianco abbacinante come una magnifica messa in scena, evidenziando la convivenza di elementi fortemente discordanti nel nostro immaginario e secondo i nostri codici visivi, e offrendo un quadro ambiguo e straniante, metafisico.

La Maison de Beistegui – nata fra il 1929 e il ‘32 dalla inconsueta collaborazione, non priva di screzi, fra l’architetto Le Corbusier e Carlos de Beistegui, cliente milionario molto esigente, con la collaborazione di Salvador Dalì, convocato per disporre gli elementi d’arredo nella terrazza surrealista – è un esempio sorprendente, a quei tempi, di contaminazione fra architettura, arte e scenografia.
Il punto è che l’architettura minimalista di Le Corbusier si discosta enormemente dalla teatrale, fastosa sensorialità dell’opera, molto lontana dal costituire una “macchina per abitare” bensì, al contrario, un luogo pensato per il divertimento, destinato ad ospitare grandi feste ed eventi mondani. L’architetto, infatti – contrario alla finalità del lavoro oltre che alle istanze surrealiste, che a loro volta non sono favorevoli, sulla carta, alla meccanizzazione né allo spirito moderno – fotografa al termine dei lavori, a corredo di un articolo da lui scritto e pubblicato dalla rivista Architecte, le stanze vuote dell’alloggio, prima dell’inserimento degli arredi.

Interno

L’appartamento è un allestimento surrealista custodito in un involucro modernista. All’interno, sotto le terrazze – in un gioco destabilizzante di pieni e di vuoti – pareti immacolate accolgono grandi vetrate e mobili rococò, specchi e oggetti di stili ed epoche diverse, oltre ad ospitare espedienti tecnologici illusionistici e cinematografici, capaci di rendere l’ambiente spettacolare e l’esperienza indimenticabile.
Luce e colore sono elemento distintivo: il bianco asettico e riflettente, l’opulenza dell’oro, il verde tenue del prato giocano ruoli specifici nella rappresentazione, dipingendo scene singolari e percettivamente sconcertanti. Inoltre, l’abitazione, nella quale l’elettricità serve ad azionare i dispositivi tecnologici, è illuminata esclusivamente dalla luce dei candelabri e vive di bagliori caldi e rossastri, tremolanti, che si riflettono, amplificati, negli specchi, nei vetri e sulle pareti, oltre che sui volti dei presenti, dando vita a un’atmosfera sempre diversa, suggestiva e misteriosa, intrisa di teatralità barocca.

Casa Devalle, a Torino, è un appartamento eclettico – una “scatola a sorpresa”, l’autocelebrativa estensione del sé, così come l’architetto Carlo Mollino intendeva la casa; un’opera all’avanguardia per i tempi in cui fu progettata, nel 1939, per il facoltoso imprenditore tessile Giorgio Devalle. Citazioni storiche e contaminazioni surrealiste, simboliste e art nouveau dialogano con vetri e specchi – in uno spazio illusorio e fuori del tempo, nel quale le pareti riflesse perdono contorni e consistenza – fondendo il reale con immagini virtuali e stranianti, dando vita a un luogo onirico, colmo di suggestioni evocative fluttuanti in un tempo sospeso.
La camera da letto è un interno scenografico opulento, dai rivestimenti capitonné – gonfi ed enfatici – realizzato in colori eccessivi, irreali. Le tinte, marcatamente sensuali e avvolgenti, ricche di pathos, sembrano scelte per l’allestimento di uno spettacolo: le pareti e il soffitto rosa confetto sono traslucidi, in seta pregiata, in contrasto con il drappo in pesante velluto scarlatto, che delimita un lato della stanza. Su un tappeto asimmetrico color crema, dai bordi sinuosi, spicca – ai piedi del letto, avvolto in un baldacchino da cui pendono tende candide e leggere – un divano in raso brillante verde abete dai contorni tondeggianti, a forma di labbra femminili.

Volto di Mae West utilizzabile come appartamento, Salvador Dalì

Il pensiero si sposta sull’installazione surrealista dedicata a Mae West (1934), a cui certo Mollino si è ispirato: è una stanza decorata da Salvador Dalì, situata nella casa museo di Figueres, in cui gli elementi d’arredo, adeguatamente disposti, disegnano i tratti del volto dell’attrice. Il divano, una bocca rossa – ha ispirato il progetto della seduta realizzata nel 1970 da Gufram, su disegno di Studio65: il sofà, esposto al Louvre, al Design Museum di Monaco e al Museum of Applied Art and Science di Sydney, è considerato uno dei capisaldi del design italiano e ha assunto le sembianze, nel tempo, di un’icona pop.
Tornando all’appartamento torinese, il riferimento meno esplicito alle labbra femminili è evidente nella preferenza – nel rivestimento del divano – per il verde scuro, nella scelta più marcatamente surrealista che consiste nel mancato utilizzo del rosso, colore iconicamente legato all’oggetto che descrive: una bocca verde è tutt’altro che vera e potrebbe appartenere a una creatura silvestre o rappresentare, invece, un bacio avvelenato, o non sincero.

Divano Bocca, Gufram

Il divano Bocca di Gufram, invece, è in vendita anche in versione nera (Dark Lady) e rosa shocking (Pink Lady), colore – quest’ultimo – dalla chiara derivazione surrealista: nel 1937 la creatrice di moda Elsa Schiaparelli – per connotare la nuova essenza da lanciare sul mercato, la cui bottiglia fu disegnata da Leonor Fini ritraendo l’immancabile Mae West – riuscì a immaginare una nuance luminosa e sfacciata, sconcertante e scandalosa, esaltante e decadente al tempo stesso, nuova in Occidente: un rosa diverso da tutti i rosa, scioccante, che contraddistinguerà da quel momento la Maison oltre a convogliare, nel tempo, messaggi legati ad una femminilità forte, seduttiva e combattiva, per niente romantica.

Skeleton dress” Elsa Schiaparelli, courtesy ©Maison Schiaparelli

Riferimenti biomorfi – palesi nell’abito abito “a scheletro” (1938) da lei disegnato, nel quale una decorazione in rilievo pare simulare l’ossatura della donna che lo indossa – si estrinsecano anche nel progetto realizzato da Carlo Mollino nel 1950 per la casa editrice Lattes: si tratta della scrivania “a vertebre” (Apelli & Varesio), nella quale la struttura del tavolo, elegantissima, è costituita proprio dalla colonna vertebrale di un animale. I due creativi, amici di Salvador Dalì, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Man Rey, Marcel Duchamp, hanno seguito iter progettuali analogamente surrealisti. Così i colori attribuiti agli oggetti – nero il primo; quello naturale dei materiali, vetro e legno, il secondo – non hanno minimamente l’intento di scimmiottare il reale, bensì di discostarsene, lasciando ampio spazio all’immaginazione di chi guarda. I surrealisti, infatti, criticano l’uso della razionalità e dell’esperienza avventurandosi, al contrario, alla ricerca di nuovi linguaggi atti a manifestare l’inconscio e il sogno, ad esplorare ciò che appare oltre la realtà fenomenica.

È palpabile, in quel periodo, la profonda contaminazione che investe l’arte in tutte le sue forme, la letteratura e il design, fatto che ha tracciato un confine fra passato e presente, la profonda linea di demarcazione che sottolinea un punto di non ritorno.

Cover photo: Maison de Beistegui, Courtesy ©Vitra Design Museum