Per me, che ho avuto la fortuna di imbattermi nei suoi disegni originali, di piccole dimensioni e seminascosti in uno spazio laterale del Padiglione Centrale (Biennale 2022), il nome di Sonia Delaunay è un richiamo diretto al colore e alla sensibilità non comune con cui l’ha utilizzato. Ho sempre ammirato i suoi acquarelli, il movimento dinamico che ha saputo imprimere alle forme, il suo linguaggio policromo e sfaccettato, che accoglie ed estrinseca le inquietudini e l’innovazione caratteristici delle avanguardie artistiche dei primi del ‘900. Nessun’altra donna vivente, prima di lei, è riuscita a vedere la propria opera consacrata a livello mondiale, e a lei è accaduto con la retrospettiva al Louvre che, nel 1964, l’ha resa immortale.
Nata a Sara Terk in Ucraina, nel 1885, a vent’anni si trasferisce a Parigi, seguendo la passione coltivata fin dall’infanzia: la giovane colta e poliglotta si trasforma nell’artista poliedrica e anticonformista che è riuscita ad abbattere la frontiera fra arte e artigianato, minimizzandone le differenze, anticipando il dialogo e la connessione fra il mondo dell’arte e quello del design, caro alla scuola del Bauhaus e oggi imprescindibile: i suoi guazzi, gli arazzi, i tessuti, i mobili, le carte da parati, i tendaggi, i paralumi, gli abiti da lei progettati ne sono la prova. “Il colore è la pelle del mondo”, affermava.
© Carla A. Bordini Bellandi
Era attratta dalle tinte pure e le impiegava avvalendosi dell’effetto vigoroso del contrasto simultaneo, ovvero di quell’interazione “magica” fra colori contigui: posti uno accanto all’altro, hanno la capacità, nell’apparire al massimo della propria divergenza, di moltiplicare reciprocamente – nell’occhio di chi guarda, attraverso il fenomeno dell’induzione cromatica – il proprio effetto espressivo e luminoso.
Piccole righe, figure geometriche ampie o minute, segni grafici colorati; nell’opera di Sonia Delaunay, il colore è indiscusso protagonista ed è lei, artista e progettista allo stesso tempo, a volerlo alla base della ricerca che intraprese con il marito Robert, e che coinvolse ogni risvolto del suo complesso e variegato lavoro. La simultaneità è il fattore scatenante del ritmo che si instaura fra forme, colore e luce, e che contribuisce a far emergere il carattere musicale e sinestetico delle composizioni, consentendo alla poesia di insinuarsi fra le maglie di un’opera di così ampio respiro e raffinatezza.
È una cadenza ossessiva, invece, quella che Yayoy Kusama (Matsumoto, 1929), l’artista giapponese più longeva e riconosciuta, imprime agli elementi ripetitivi che costituiscono le sue opere. Si tratta della reiterazione del suo stato d’animo, finalizzata ad esorcizzare le ansie e le paure che da sempre la perseguitano e ad allontanare le allucinazioni scaturite da un’infanzia segnata dalle violenze domestiche che ancora si materializzano svelandosi, anche se con fattezze ludiche, nei simboli proposti attraverso la sua arte.
Sagome tondeggianti, sferiche o circolari, stanno alla base del suo pensiero a partire dalla performance “Il Giardino dei Narcisi”, che constava di oltre mille sfere galleggianti gettate senza autorizzazione nei canali di Venezia durante la Biennale del 1966. Sono strutture rassicuranti, “morbide, colorate, inconsapevoli” nella forma ma inquietanti nel numero apparentemente infinito delle ripetizioni nello spazio che sembra, così, non avere inizio né fine.
“I pois sono una via verso l’infinito” sostiene Kusama. E con essi zucche, fiori, simboli fallici, ma anche luci e bagliori colorati rappresentano il suo universo assillante, ma pur sempre protagonista di una rigenerazione dell’esistenza, straordinaria in quanto vitale, dinamica e naturale: il rosso e il giallo – insieme ad altri colori da lei amati come il magenta, il verde, il ciano, sempre saturi e brillanti – sono usati in policromia ma più spesso in forma monocroma, in contrasto con bianco o nero producendo, così, opposizioni sia percettive che simboliche: il nero – per l’artista l’ombra pesante e materica, indizio delle sue sofferenze – enfatizza la capacità delle tinte di riflettere luce e rende i colori adiacenti meno intensi, mentre il bianco ne attenua la luminosità accentuandone, al contrario, la densità. Una combinazione di giallo e nero alluderebbe tipicamente al pericolo (Biennale 1993). Il bianco senza confini, invece, crea una scenografia distante e vuota, irreale.
Candida è, infatti, la “Obliteration room”, una grande stanza asettica e anonima, che prenderà vita, e colore, solo attraverso la performance del pubblico, chiamato ad applicare pois multicolore durante il cammino attraverso l’installazione. L’artista attribuisce un significato opposto a “Flower obsession”, l’ambientazione, anch’essa totalmente bianca, che apparirà disseminata di decine di migliaia di fiori rossi, dopo il transito interattivo di migliaia di visitatori. È come se la natura si fosse riappropriata dello spazio creato dall’uomo, pervadendolo completamente. Il rosso, inquietante, qui incarna l’ossessione con cui l’artista tutt’ora convive e che, nei suoi ricordi, si materializza nell’avvertire, durante una crisi avuta a dodici anni, i motivi della tovaglia fiorata, stesa sul tavolo della cucina, moltiplicarsi a dismisura, estendendosi verso il soffitto, sulle pareti, sul suo stesso corpo, impossessandosi dell’intero universo.
Kusama dal 1977 vive per propria scelta in un ospedale psichiatrico, che lascia ogni mattina per recarsi in studio a dipingere.
Lo scorso 1° marzo, all’età di 102 anni, ci ha lasciati Iris Apfel, regina di uno stile inconfondibile e personalissimo. Laureata all’Accademia di Belle Arti e collezionista da tempo immemore di gioielli antichi, oggetti e accessori provenienti da tutto il mondo, è stata collaboratrice della rivista Women’s Wear Daily, ha insegnato moda e, insieme al marito, gestito per quarant’anni un’industria produttrice di tessuti pregiati per l’arredamento e lavorato come consulente di interni per la Casa Bianca e di numerose personalità americane.
Donna ironica, originale ed eclettica, si è affermata come icona del gusto e della creatività, lasciando un’impronta permanente nel design e nella moda del suo tempo. “Rara Avis (uccello raro): the irriverent Iris Apfel” è il titolo della retrospettiva che nel 2005 le è stata dedicata dal Metropolitan Museum of Art di New York; una serie di oltre 80 abiti della sua collezione personale ha girato il mondo, testimoniando la capacità irripetibile della designer di mescolare stili e colori, gioielli e accessori, pezzi scovati chissà dove e alta moda, perché per lei classe non corrisponde a minimalismo, bensì all’accostare con estro e maestria capi, tinte e accessori: «more is more, and less is a bore».
Le sue mise coloratissime, sopra le righe ma estremamente chic, dimostrano una spiccata predisposizione ad abbinare materiali, stili e colori: dai ton sur ton, mossi da raffinatissimi contrasti di estensione, che prendono forma sovrapponendo agli abiti gioielli in tinte contrapposte, ai colori puri, ai motivi optical e ai contrasti complementari, così eccessivi se indossati dai comuni mortali ma incantevoli e atipici negli abbinamenti concepiti dall’unica, ineguagliabile Iris Apfel.