Uno spazio vuoto, una lacuna, una mancanza. Una vacanza intesa come sospensione, come momento libero da attività, participio presente di vacare, essere privo. Il verso sciolto, non rimato: per Italo Calvino, invece, la parola blank rappresenta essenzialmente il colore della mente.
“Il colore della lettura non può essere il grigio – disse Italo Calvino nel 1985, visitando una mostra del pittore giapponese Arakawa – ma il blank, il colore della mente. La mente ha un colore che non riusciamo mai a vedere perché ce n’è sempre qualche altro che ci passa per la testa e si sovrappone allo sguardo”.

L’eccesso di distrazioni cromatiche può essere fuorviante o quantomeno fastidioso poiché perscrutare la mente, ripulendola dai troppi colori che la percorrono, permetterebbe di penetrare il silenzio che pervade l’anima del mondo, di fluttuare in quello spazio vuoto che rappresenta la libertà stessa di agire e di vivere.
Un vuoto che rappresenta il tutto, un concetto inclusivo come lo è la luce stessa, bianca perché composta dalla somma di tutti i colori dello spettro; un’idea che si contrappone specularmente a un altro tipo di vuoto, assoluto e lontano, un nulla che si materializza in un buco nero e all’interno del quale tutto si distrugge: bianco contro nero, possibilità contro negazione.
“Nella mia mente i circuiti dove scorrono le idee vanno tenuti sempre sgombri perché una qualsiasi idea potrebbe ostruirli e bloccarli” continuava Calvino. Solo ciò che è intellettuale lascia trasparire il colore della mente…
Per questa mia divagazione ho preso spunto da Blank, l’installazione che Felice Limosani ha realizzato per Targetti, un lavoro site-specific nato fra le mura della galleria Il Castello, in via Brera, 16, nel contesto della Design Week appena terminata: suggestive linee luminose percorrevano il pavimento dello spazio espositivo, permettendo al visitatore di camminare immerso nella luce, che cambiava colore sotto i suoi piedi.
“Il progetto dialoga attraverso la percezione e la contemplazione a ricordarci che il vuoto non è solo una dimensione fisica ma è anche mentale, interiore e spirituale. Noi possiamo colorarlo e riempirlo con la consapevolezza, la conoscenza e l’Umanità” afferma Limosani.
Per contro, la nostra vita è coloratissima: lo è l’ambiente in cui viviamo, costellato da prodotti variopinti nelle vetrine dei negozi e sugli scaffali, e dalla comunicazione che ne pubblicizza la vendita. Sono colorate le pagine delle riviste che leggiamo, reali o virtuali, ma ancora di più lo sono i fotogrammi che – attraverso i social, il piccolo e il grande schermo, i videogiochi – pervadono le nostre giornate in maniera dirompente: nell’era digitale, la nostra esistenza è contaminata da immagini le quali, sempre più patinate e artificialmente colorate, raccontano un quotidiano – nella realtà spesso sbiadito, veloce e sfuggente – che viene modificato per essere divulgato, e che rispecchia un vissuto non necessariamente reale che alcuni trovano più intrigante, sempre più orientato a generare emozioni ma che giunge spesso, per contro, alla banalizzazione dell’immagine e del colore.
Come nel cinema “Il colore comincia là dove non coincide con la colorazione naturale” (Èjzenstejn): il cromatismo, così, si fa spazio fra le maglie di un artefatto – l’immagine manipolata – che ha le sembianze del reale, modificato in postproduzione per essere condiviso, per trasformarsi nell’elemento principale ed esclusivo, rafforzato di significati, di metafore potenti e descrittive. Così la vita – lavata dal grigio dell’abitudine – entra a far parte di un immaginario emozionante e multicolore, audace e spettacolare.
Paragonabile a prima vista all’effetto cinematografico della visione monocromatica a tutto schermo – una vera e propria campitura di colore che si espande sulla pellicola attenuando i contorni dell’immagine fino a cancellarla completamente, lasciando spazio a una visione monocolore, trasfigurata e potenziata fino ad assumere il ruolo essenziale di colore-soggetto – è l’installazione interattiva Chromosaturation.
Chromosaturation © Carla A. Bordini Bellandi
Ideata da Hannes Böker e Daniel Kainz per Alpha Tauri ed esibita nel corso della Design Week, il suo fine era quello di produrre un’esposizione immersiva e assoluta nel colore. Il percorso obbligato, che conduceva da uno all’altro dei due ambienti – contigui e monocromatici, saturi di luce colorata, una blu brillante, l’altra magenta – permetteva al visitatore di vivere un’esperienza estraniante, totalizzante, e di sperimentare come la percezione possa essere profondamente alterata attraverso un bagno nel colore, fino a provocare vere e proprie sensazioni fisiche come, per esempio, un senso di freddo nello spazio blu e di caldo in quello magenta. L’esperimento è un indizio, per chi ancora fosse scettico, dell’indiscutibile influenza che il colore dell’ambiente interno esercita su chi lo abita e della certezza che esso vada, per questo, “maneggiato” con cura.
Fra i vari ottimi pretesti per disquisire di colore, ho scelto due occasioni incontrate per caso aggirandomi per Milano, che mi hanno permesso di affrontare argomenti diversi e degni di un approfondimento. Benché sia passato del tempo – e sappiamo tutti che, affinché le notizie possano essere chiamate tali, dovrebbero essere consumate entro la data di scadenza – scrivo ancora della Design Week perché un’edizione che si rispetti (e questa lo è stata eccome!) non si limita esclusivamente a ciò che abbiamo avuto l’occasione di vedere esposto, né si esaurisce con la chiusura degli spazi espositivi perché – oltre alle interazioni che essa ha saputo creare fra aziende e persone, alle nuove relazioni che ha generato, ai prodotti e alle idee che ha divulgato – il suo ruolo è anche quello di gettare semi di conoscenza e di cultura, stimolando riflessioni e curiosità, attenzione e ricerca a tutti i livelli, di instillare dubbi e rafforzare certezze, che avranno inizio una volta chiusi i battenti.
Cover photo credits: ©Carla A. Bordini Bellandi