In cerca del colore – in un Salone da primato – l’evidenza ha rafforzato la mia convinzione che il suo buon uso non sia prerogativa comune. Parte dell’offerta di qualità, a volte splendidamente singolare, non è eccessivamente colorata; prevalgono le belle tinte congenite dei materiali, i toni caldi o neutri del legno, le venature nitide e freddine della pietra, l’iridescenza di vetri più o meno spessi e trasparenti, attraverso i quali la trasmissione della luce offre riflessi variegati o tinte pastose. La natura dei marmi si rivela nelle sfumature traslucide, che risentono del contenuto di minerali e metalli. Resine, laminati, tessuti e oggetti intervengono poi nell’ambiente con tocchi più saturi o squillanti, conferendo il ritmo necessario ad animarlo, a creare un mondo unico nel quale addentrarsi, preannunciando l’atmosfera ricercata di un abitare che risponde ad aspettative elevate di funzionalità e di armonia.
Oltre i molti esempi notevoli, qualche proposta non ha brillato per sensibilità cromatica, né dimostrato la predilezione dei progettisti per un’estetica sobria o, all’opposto, magistralmente atipica; era evidente, qua e là, la scelta di accenti aggressivi e poco pertinenti, di contrasti tediosi: si sa, l’abilità di mescolare cromaticamente elementi d’arredo, di progettare interni eleganti e misurati o scenografici – capaci di esprimere non soltanto la preziosa essenza della materia e suggellare la qualità del design, ma anche di avvalorarne la vena artistica – non è di tutti.
Può succedere, al Fuorisalone, di imbattersi – nel luna park delle installazioni luminose nate all’insegna del “purché sia colorato” – nel colore urlato, nel tocco inesperto, nella scelta di tinte scontate o fuori luogo, talora con la pretesa di ostentare concetti pseudo scientifici, collegandoli a stento al ruolo dei colori nella performance. Meglio sarebbe, senz’altro più onesto o meno deludente per chi guarda, che la scelta cromatica, spesso arbitraria, venisse attribuita alla vena creativa dell’autore: spesso, infatti, gli artisti contemporanei ricreano copie oniriche del mondo, astri e soli artificiali, labirinti con le sembianze del reale, universi paralleli nei quali smarrirsi; lo fanno esibendo abilità tecnica con il fine, spesso, di esorcizzare il timore atavico dell’uomo di perdere il controllo dell’universo conosciuto o il dubbio che nutre di lasciarselo sfuggire di mano.
Domenica, di prima mattina, nell’aria fredda di fine aprile, ho atteso oltre mezz’ora insieme a un centinaio di persone, composte e fiduciose, in coda per accedere a un’ambìta installazione, il cui titolo lasciava presupporre avvincenti retroscena a sfondo scientifico. Nell’oscurità, suggestivi bagliori multicolori erano, come annunciato all’ingresso, associati a suoni e vibrazioni. Sinesteticamente? La parola sinestesiasignifica “sentire assieme” e descrive il fenomeno della percezione combinata, che coinvolge allo stesso tempo due diverse sfere sensoriali. Annusare o gustare un colore, udire suoni evocanti una particolare visione cromatica: così note, sapori, impressioni tattili e olfattive suscitano in noi sensazioni incrociate.
In tutta onestà, non lo so; avevo letto di un software capace di tradurre le frequenze luminose in onde sonore e viceversa, ma nessuno, lì, è stato in grado di chiarire alcunché: all’ennesima risposta vaga degli interpellati – giovani preposti all’assistenza del pubblico, molto cortesi ma poco informati – mi sono immedesimata nel giornalista che – ne La grande bellezza – intervistando la pseudo artista Talia Concept le chiedeva, spazientito dalle sue risposte vuote ed evasive: “Ma CHE COS’È una vi-bra-zio-ne?”.
Io però, al Salone, cercavo il colore che avesse un valore aggiunto, protagonista perché parte integrante di un oggetto, connesso culturalmente o emotivamente al contesto in cui è inserito. Il colore è la sensazione prodotta nel cervello da un corpo colpito dalla luce, o da un oggetto in grado di emetterne. Componente essenziale della luce bianca, esso appare ai nostri occhi come conseguenza della capacità selettiva delle superfici di rifletterne una parte. Infatti, esso è correlato alla struttura molecolare delle cose, dei pigmenti e delle tinture con cui le coloriamo.
Paola Paronetto
Le creazioni di Paola Paronetto, leggere e sfaccettate, si impongono con grazia, come fiori di loto, alla forza di gravità: pure e perfette, si ergono sullo stelo, protendendosi verso l’alto. Sono oggetti – vasi, in prevalenza – realizzati in paper clay, il duttile materiale che permette all’artista di conferire ad ogni pezzo unico, sagomato a mano, carattere di resistente levità. Disposti su un fondo bianco – che esalta la delicatezza delle tinte pastello come pure la consistenza corposa di quelle piene – gli artefatti risplendono come fiori dalle tinte più o meno intense, ognuna irripetibilmente espressiva, connaturata alla superficie che la riflette. Anche l’abito plissé della designer, arancione sfumato nel bianco gesso, dialogava coerentemente con le opere.
Swirl cc-Tapis
Ingenuo come una presina fatta all’uncinetto, il tappeto Swirl (Univers Uchronia per CC Tapis) equivale a un tuffo nel passato; è la replica gigante di un oggetto utile, anonimo e banale. Palette spontanee digradanti, ispirate ai colori delle stagioni, attestano l’assenza di progettualità tipica del manufatto originale, designato al recupero degli avanzi di filato, donando al tappeto l’incanto dei ricordi sbiaditi che evoca.
Il rivestimento murale di Cedit (Guerzoni & Zaven, Archeologie e Rilievi), concepito dal pittore Franco Guerzoni, è un progetto cromatico colto: sono pareti che narrano di vite vissute, di storie stratificate come materiali opachi e pigmenti, densi e brillanti, stesi uno sull’altro nel corso degli anni e scrostati dal tempo. Sono muri sbrecciati dai quali, insieme ai colori che riemergono, trapelano epoche ed esistenze passate, tradotte in stimoli creativi per un abitare contemporaneo. (“Quando mi chiedevano: cosa c’è di più bello nella vita? Io rispondevo: “l’odore delle case dei vecchi”, da La grande Bellezza).
Come non farsi sedurre dalla ricchezza cromatica, espressiva e ipnotica, dei tappeti di Verner Panton presentati da Amini? Colori e geometrie – parte integrante del progetto tessile originale, finalizzato a produrre contrasti gioiosi e suggestivi – si estrinsecano nella profondità cromatica conferita dalla qualità dei materiali e dalla struttura tessile: un altro ottimo esempio di colore che corrisponde all’essenza dell’oggetto.
Intrigante ma criptica, l’installazione The thinking room (di David Lynch, a cura di Antonio Monda) – una camera per riflettere – accoglie, oltre a oggetti allegorici, gli elementi noti del lessico cinematografico del regista dell’inconscio: velluto blu denso e misterioso, nero primordiale e metafisico che, nel percorso meditativo, presagisce il suono inquietante della parola “silencio”. Infine il rosso profondo, tipicamente violento e disturbante, che colora la pesante tenda drappeggiata, incarna l’inconfondibile cifra stilistica di Lynch.
Cover photo credits: © Amini – Verner Panton