La semplicità è la cosa più complicata del mondo
Vico Magistretti
Ludovico Magistretti (1920 – 2006), per tutti Vico, Architetto e Designer: senza alcun dubbio uno dei grandi protagonisti e fondatori del Design Made in Italy.
Nato nel 1920, subito dopo la Grande Guerra, nel 2020 avrebbe compiuto 100 anni e noi, nuova generazione di architetti e designer, ne sentiamo molto la mancanza.
Milanese doc, è stato figlio d’arte: il padre Pier Giulio, anch’egli architetto, è stato una figura importante nel panorama dell’Architettura milanese tra fine ‘800 e metà ‘900. Suo il progetto dei due palazzi gemelli dell’Arengario (1936 – 1956) di Piazza Duomo a Milano, uno dei quali sede oggi del Museo del ‘900.

Vico studia Architettura al Politecnico di Milano. Nel 1943, in piena Seconda guerra Mondiale, è costretto ad allontanarsi dall’Italia e a trasferirsi in Svizzera dove ha modo di incontrare personaggi significativi dell’Architettura dell’epoca che saranno in seguito per lui, oltre che mentori, anche compagni di lavoro e amici fraterni. Tra essi Ernesto Nathan Rogers (fuggito anche lui dall’Italia poiché ebreo): l’iniziale del suo cognome è la R dell’acronimo del celebre studio BBPR, progettisti tra l’altro, della famosa Torre Velasca (1955 – 1957).

È durante il periodo dell’Università, tra Milano e Losanna, che Vico si forma come uomo, intellettuale e architetto: la sua vita sarà attraversata dalla presenza di altri celebri nomi dell’ambiente culturale e dell’Architettura milanese di quel periodo come Giò Ponti e Piero Portaluppi, entrambi suoi insegnanti, che molto influenzeranno la sua carriera futura.
Mi sento di sottolineare come Magistretti, prima di diventare uno dei più grandi designer italiani sia stato (ed è rimasto fino all’ultimo) un grande architetto e urbanista.
A causa della morte prematura del padre, avvenuta prima che il figlio si laureasse, eredita lo studio di Architettura del padre che rappresenterà il suo lavoro e tutta la sua vita: “luogo natio” delle sue meravigliose idee e degli innumerevoli progetti che ci ha lasciato in eredità.
Giovanissimo e dotato di talento, fu coinvolto in diversi piani di ricostruzione post – bellici a Milano, tra cui quelli di INA – Casa per interventi di edilizia economica e popolare: suoi, per esempio, i progetti delle case per i reduci d’Africa e la chiesa di Santa Maria nascente (1947 – 1955) all’interno del nuovo quartiere QT8 a Milano o il Quartiere Pirelli a Cinisello Balsamo (1958 – 1960).
Dalla fine degli anni ’50 – inizio anni ‘60, insieme ad altri colleghi e amici – tra cui Ignazio Gardella, Franco Albini e Giancarlo De Carlo – contribuì a rivoluzionare e a cambiare il volto della città di Milano che allora si era appena rialzata dalle macerie della guerra, così come tutto il resto del paese. I loro progetti, non sempre accolti favorevolmente a quei tempi poiché considerati molto audaci e quasi “radicali”, oggi sono luoghi- simbolo di una cultura architettonica che ha posto le basi e segnato la via ai progettisti delle generazioni future.
In quel periodo Vico realizza due dei suoi progetti più importanti per la città: la Torre al Parco in Via Revere (1953 – 1956), a ridosso di Parco Sempione, e il Palazzo per Uffici in Corso Europa (1955 – 1957) alle spalle del Duomo. Ma molti altri potrei elencarvi, tra cui: le torri di Piazzale Aquileia (1961 – 1964), le torri del Gallaratese (1963 – 1971) o il Dipartimento di Biologia a Città Studi (1978 – 1981).


Sono gli anni del fervore intellettuale, del dialogo, della curiosità e della ricerca di un nuovo linguaggio comunicativo che sia espressione e manifesto della nuova Milano, che da città si stava trasformando in metropoli. È da questa esigenza di novità e di crescita da parte di un gruppo di giovani progettisti che nasce il design italiano. Non sono solo progetti su carta, in quegli anni si concretizza la collaborazione tra Vico e altri nomi di giovani imprenditori milanesi e dell’hinterland, che da lì a poco costituiranno i più grandi marchi del Design: i fratelli Cesare e Umberto Cassina, Giuseppe Ostuni di Oluce, Maddalena De Padova ed Ernesto Gismondi di Artemide.
È dal connubio tra Vico e queste aziende che verranno prodotti gli oggetti – simbolo del design italiano, riconosciuto in tutto il mondo, come le lampade Eclisse (1965) e Dalù (1969) per Artemide, la Sonora (1976) e la Atollo (1977) per Oluce, la libreria Nuvola rossa (1977) e la sedia 905 (1964) per Cassina. E molti altri sono i progetti che potrei citare.
Ma non solo Artemide, Oluce, Cassina o De Padova: innumerevoli i progetti realizzati per i marchi Flou, Kartell, Schiffini Mobili e Cucine, Fontana Arte, fino alla più recente con Campeggi.
È la collaborazione con questi nomi che consacra Vico Magistretti come uno dei padri fondatori del design italiano insieme ad altri suoi coetanei e amici come Achille Castiglioni, al quale fu sempre legato da una grande stima reciproca.
Dalla fine degli anni ’60 la sua fama è in continua crescita e il suo lavoro sempre più apprezzato in Italia e soprattutto all’estero: molti degli oggetti da lui disegnati si trovano oggi esposti presso le collezioni permanenti del MoMa di New York e del Victoria & Albert Museum di Londra. Dagli anni ’80 ricoprì il ruolo di visiting professor presso il Royal College of Art di Londra, di cui fu anche membro onorario.
Non sono in grado di affermare con certezza se Magistretti sia stato maggiormente architetto, urbanista o designer, poiché egli non riteneva importante la scala di rappresentazione in cui lavorava: dedicava uguale attenzione e dedizione sia che stesse lavorando ad una lampada per Oluce o ad un quartiere a nord di Milano. Ha ideato e realizzato divani, lampade, sedie, poltrone, tavoli, librerie, cucine, … È stato sicuramente uno dei progettisti contemporanei più prolifici in Italia.
Chi lo ha conosciuto e ha avuto la fortuna di essere tra i suoi collaboratori, racconta che egli amava maggiormente elaborare schizzi piuttosto che disegni tecnici, poiché sosteneva quanto fosse importante la chiarezza dell’idea e la passione con cui essa veniva trasformata in oggetto o progetto reale, capace di regalarci emozioni: che è in fondo l’essenza della nostra professione.
Vico sosteneva che un concept era chiaro se poteva essere comunicato e compreso anche solo tramite parole al telefono o attraverso uno schizzo, senza tanti fronzoli.
“A me piace il concept design, quello che è talmente chiaro che puoi anche non disegnarlo. Molti dei miei progetti li ho trasmessi al telefono”
(Vico Magistretti)
Questo modus operandi può essere ancora oggi letto poiché è stato trasmesso in tutti i suoi progetti realizzati: oggetti dalle forme semplici, comode, universali, al di sopra del tempo e delle mode.
I suoi edifici sono sparsi per tutta Milano, dal centro fino alle zone più periferiche: dall’edificio in Via San Marco (1969 – 1971) nel quartiere Brera fino al deposito ATM a Famagosta (1989 – 1999). Progettava per tutti: per la borghesia milanese, così come per i reduci di guerra, la popolazione meno abbiente o semplicemente per la gente comune.
Oggi il suo corpo riposa, com’era giusto che fosse da milanese illustre quale è stato, nel Cimitero Monumentale, ma il suo pensiero di intellettuale e progettista si trova ovunque: nelle sue architetture della Milano che tanto amava, come nelle case di tutti, dove egli ha voluto che fossero i suoi oggetti.