Yayoi Kusama, artista giapponese nata il 1929, è una delle donne nell’arte contemporanea più importanti ed influenti. Nei suoi oltre 60 anni di carriera ha prodotto e continua a produrre un impressionante numero di opere, partendo dalla pittura e passando anche per installazioni, video arte e performance art, come anche romanzi e poesia. L’aspetto che forse più lascia basiti davanti ai suoi lavori però è stata la capacità di trattare ed approfondire una tematica intima come quella della sua stessa psiche, che espone ed analizza attraverso i motivi caratterizzanti della sua poetica.

Yayoi Kusama, Senza titolo 1939, matita su carta, 25 × 22 cm

È estremamente famosa per l’utilizzo ripetuto ed ossessivo dei pois, o polka dots, che tornano a più riprese nei suoi lavori. La loro origine è però personale e lontana, risale alla sua infanzia, a Matsumoto, quando a causa della situazione familiare, con la madre che da un lato violentemente si opponeva al suo voler diventare un’artista, poiché per lei mestiere poco adatto ad una donna, e che contemporaneamente la costringeva a spiare il padre, un donnaiolo, nei suoi atti di tradimento, cominciò a soffrire di allucinazioni.  Queste si tradussero proprio nei famosi pois, che lei vedeva ormai ovunque e che ritrae in una delle prime volte in un ritratto della madre: Il piccolo ritratto a matita infatti, molto ben composto per essere l’opera di un bambino, vede questi piccoli cerchi coprire qualunque superfice, ripetuti ossessivamente in varie dimensioni dallo sfondo fino al freddo volto della madre.

Yayoi Kusama, Net-No.2 Yellow, 1960

L’arte comincia sin da questo momento ad essere per lei terapia e ragion d’essere, e questa ossessione non solo per i pois ma per l’atto di ripetere uno stesso motivo più e più volte, ritornerà ancora. È il 1958, ormai Kusama si è già trasferita a New York, con il sogno di sfondare come artista, ben lontana dal troppo maschilista ambiente giapponese. Nasce in questo periodo la serie chiamata Infinity Nets, tele di grandi dimensioni dipinte con uno sfondo monocromatico e ricoperte da un’unica pennellata curva, carica di colore, ripetuta ossessivamente su tutta la superficie, proprio come il nome recita, all’infinito. Le parole “ossessione” e “ossessivamente” non sono ripetute per caso: nei suoi lavori in generale, ma forse più in questi che in altri, Yayoi Kusama ha lavorato anche più giorni di fila senza interruzioni, fino al collasso. Nonostante questo, presto le tele si sono dimostrate non sufficienti a rappresentare l’infinito al quale l’artista puntava.

È così che si arriva alle sue famose Infinity Rooms, stanze con muri a specchio che riflettono all’infinito il loro contenuto, che si tratti di installazioni luminose che riproducono lo spazio e le stelle obliterando all’interno di esso lo spettatore, come Infinity Mirrored Room – The Souls of Millions of Light Years Away,sia che si tratti di installazioni di natura scultorea. È quest’ultimo il caso del Campo di falli, installazione apparsa per la prima volta nel 1965 alla Castellane Gallery: in una stanza con muri a specchio Kusama ha installato sul pavimento morbidi falli in tessuto bianco. L’infinita vista di falli bianchi appare strana ed alienante, ed è per l’artista in realtà un’altra forma di catarsi.

Yayoi Kusama, Accumulation No.1, 1962

Traumatizzata dagli eventi relativi al padre, avrà sempre la fobia del sesso, che affronta nella serie Accumulations, nella quale copre comuni oggetti, ad esempio la sua poltrona Accumulations n.1, con queste morbide protuberanze, fino a farle quasi svanire. Se pur vero che tali simboli fallici donano agli oggetti su cui vengono posti una carica sessuale che di loro non possiedono, la morbidezza dell’installazione unitamente all’ossessiva ripetizione, rendono il fallo un oggetto comune e banale, e non più centrale ed importante, snaturandolo e perdendolo nel tutto, al punto che persa la sua carica erotica persino la stessa artista riuscì a farsi ritrarre poggiata o distesa su di essi.

Si raggiunge così l’obliterazione, principalmente tramite il simbolo proprio del pois, sempre ripetuto molteplici volte, come nel film Kusama’s Self Obliteration e nei suoi molti Happenings, lavori di performance e body art. La parola obliterazione ha per Yayoi Kusama un significato diverso da quello che gli si attribuisce di solito. Lei infatti qui non distrugge nulla, ma ricoprendo sé stessa o i corpi nudi dei partecipanti di colorati pois fa sì che questi rientrino a far parte delle sue allucinazioni, che si fondano e confondano con i pois, perdendo i loro confini e diventando parte dell’infinito di cui questa forma è simbolo nella sua poetica.

Yayoi Kusama, Obliteration Room, 2002

Lo stesso principio è applicato anche in installazioni come Obliteration Room, dove però ad essere obliterato è lo spazio attorno allo spettatore: in questa stanza completamente arredata e completamente bianca, vengono dati agli ospiti pois adesivi da applicare dove preferiscono. Il risultato è uno spazio assorbito dai pois, che ne fanno perdere i confini e lo fondono con il tutto, in una giocosa esplosione di colore.

Yayoi Kusama, Narcissus Garden, 1966

Dal mix derivante da installazione, performance art, specchi e polka dots nasce Narcissus Garden: alla Biennale di Venezia del 1966, pur non essendo invitata ma con il beneplacito degli organizzatori ed il supporto di Lucio Fontana, posa 1500 sfere specchianti davanti al padiglione dell’Italia. Le sfere, creando un gioco di riflessi, riproducevano lo stesso ambiente da prospettive diverse, molteplici volte. Il nome è dovuto non a caso però a Narciso, che si innamorò di sé stesso specchiandosi uno specchio d’acqua, in quanto non solo quelle sfere riflettevano anche il pubblico, ma erano acquistabili, per la modica cifra di 2 dollari, dalle mani dell’artista stessa che consegnava all’acquirente la propria immagine, elevata così ad arte, parimenti all’immagine di chiunque vi si specchiasse.

Yayoi Kusama, Mirror Room (Pumpkin), 1991

L’organizzazione in realtà fece desistere l’artista dal vendere in quella maniera le sue sfere, e Kusama non tornò alla biennale fino al 1993, quando, dopo un lungo periodo nel quale era stata dimenticata dal mondo dell’arte ed in preda ai suoi problemi di ansia e  di salute si era ritrasferita in Giappone, precisamente in un ospedale psichiatrico a Tokyo nel quale ancora risiede, fu chiamata proprio dalla nazione che la ripudiò, e dalla quale scappò molto tempo prima, come rappresentante per il proprio padiglione a Venezia. Lì portò Mirror Room (Pumpkin), una stanza ricoperta su tutte le superfici da una decorazione a sfondo giallo zucca a pois neri, contenente un ulteriore spazio interno a specchi dotato di spioncino, che invita lo spettatore a curiosare nella mente dell’artista, dove troverà a sorpresa un infinito campo di zucche.

La zucca è per Kusama un simbolo un po’ particolare, anche questo radicato nella sua infanzia. Da bambina infatti, vivendo in una zona di campagna, non era insolito nei campi vedere delle zucche, che le risultavano durante le sue allucinazioni, per la forma morbida e tonda, meno inquietanti rispetto ad altri oggetti come i fiori. Da qui sono diventate un oggetto che le porta tranquillità e che spesso funge da alter-ego. Nel trittico Pumpkin del 2002 vediamo forse la massima celebrazione di questo ortaggio, in tre colori acrilici distinti, uno per ogni tela, fuso ai motivi cardine della tela e del polka dot. Su sfondo nero, queste zucche dipinte in uno stile tra il minimale e la pop art, assumono tridimensionalità nonostante l’uso di soli due colori per ciascuna grazie al sapiente uso della ripetizione dei pois, dando a chi osserva la forte sensazione che ciascuna zucca abbia una sua forte e distinta personalità.

Oggi, nonostante l’età che avanza, Yayoi Kusama continua a dipingere e lavorare ogni giorno nel suo studio vicino all’ospedale in cui vive, attività fondamentale per la sua salute e per l’arte stessa, che dopo averla quasi dimenticata del tutto dopo gli anni ‘70, oggi la celebra e continua a celebrarla sempre di più, tra mostre personali e opere battute all’asta a cifre straordinarie.