Tra i simboli della Grande Mela, il Metropolitan Opera House è uno dei teatri più grandi al mondo e, nonostante sia stato inaugurato nel 1966, si configura ancora come un teatro tecnologicamente all’avanguardia, con un’ottima acustica e la possibilità di ospitare numerosi spettacoli contemporaneamente, grazie ad un’ampia e alta torre scenica. L’edificio che oggi conosciamo come Met, venne costruito per sostituire il precedente omonimo, situato tra la 39a e la 40a strada a Broadway: un teatro inaugurato nel 1883 e che, negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, risultava ormai datato e privo dei servizi necessari alle rappresentazioni contemporanee. Inoltre, con l’Europa devastata dal conflitto mondiale, il mondo americano, spinto da personalità influenti, voleva cogliere l’opportunità di rendere New York un riferimento culturale mondiale.

John D. Rockefeller III, a destra, dà un assegno al sindaco Robert Wagner per acquistare il terreno dove sorgerà il Lincoln Center, mentre dietro l’urbanista Robert Moses indica il lotto © Queens Library, Archives, New York Herald Tribune

Il nuovo Met si inseriva all’interno del più ampio progetto del Lincoln Center, un complesso di edifici destinati in gran parte allo spettacolo e sede di ben dodici istituzioni artistiche, finanziato in larga parte da John D. Rockefeller III. Come progettista della piazza del Lincoln Center e del Metropolitan Opera House, suo punto focale, Rockefeller scelse l’architetto Wallace K. Harrison, con cui aveva già collaborato in passato per la realizzazione del Rockefeller Center.

Non era possibile ricostruire il muovo teatro all’interno del fitto reticolo di Manhattan, e il Lincoln Center for the Performing Arts venne realizzato in una zona oggi molto chic, ma all’epoca abbastanza malfamata, l’Upper West Side. Ciò rese più facile espropriare i terreni e demolire le case dove vivevano ammassati un gran numero di immigrati per far spazio ad un teatro moderno e dotato di tutto il necessaire per mettere in scena grandi capolavori: un ampio palcoscenico altamente meccanizzato, con numerosi ascensori e piattaforme girevoli che consentono di modificarne l’assetto; sotto di esso, ampi spazi per il deposito di attrezzature e per la costruzione di interi sistemi di scenografie e costumi; infine, una sala dove l’acustica fosse perfetta in ogni posto a sedere e in piedi, grazie alla collaborazione di esperti tecnici dell’epoca (l’acustica venne curata da Cyril Harris, architetto e fisico americano). L’obiettivo fu pienamente centrato, specialmente considerando che, in oltre sessant’anni di vita, l’edificio ha subito esigue modifiche, tra l’altro non finalizzate al miglioramento di aspetti tecnici.

Nella progettazione della piazza, Wallace Harrison sembra essere influenzato dalla sua formazione giovanile, durante la quale aveva avuto l’opportunità di fare una sorta di Grand Tour in Europa, vivendo per un periodo a Roma. La pavimentazione e la disposizione degli edifici lasciano intravedere l’ammirazione dell’architetto verso il Campidoglio e Piazza San Pietro visti in giovane età. Ma non è solo la Roma michelangiolesca quella presente al Lincoln Center. Infatti, Harrison e il suo progetto, subirono loro malgrado la fama delle archistar degli altri edifici sulla piazza, tra cui spiccavano Eero Saarinen e Philip Johnson, e le loro conseguenti scelte estetiche e stilistiche. Proprio Johnson, pioniere dell’architettura moderna e progettista del New York State Theater, ammirava gli edifici dell’E42 ed è evidente come il razionalismo e il travertino dell’EUR romano siano stati portati oltreoceano.

Le archistar del Lincoln Center non furono l’unica complicazione all’attività progettuale di Harrison. La missione di donare un nuovo teatro alla città di New York non fu facile da portare a termine e gli richiese grande pazienza e diplomazia. La gestazione del teatro, infatti, fu caratterizzata dalla presenza di personalità talmente ingombranti che risulta difficile immaginare come potessero stare tutte insieme nella stessa sala il giorno dell’inaugurazione del Met. Schiacciato tra esse – tralasciando Eero Saarinen e Philip Johnson –  Harrison, cercava di mettere tutti d’accordo: Robert Moses, urbanista e politico, artefice della ristrutturazione di New York tra gli anni ’30 e ’70; John Davison Rockefeller III, capo della commissione per la costruzione del nuovo teatro; Rudolf Bing, direttore del futuro Met.

Ognuno di questi personaggi aveva abbastanza potere da permettersi di prendere decisioni al posto dell’architetto, il quale dovette lottare sia con la committenza per continue richieste di decorazioni interne alla sala (forse l’Opera non poteva essere rappresentata in un teatro moderno?) e di cambiamenti al progetto della piazza, forse non abbastanza tradizionale, sia con la direzione del teatro per la decorazione pittorica del foyer, affidata direttamente da Rudolf Bing a Marc Chagall. Ma forse, furono proprio la pazienza e l’umiltà di Harrison, che disegnò almeno quarantacinque diverse proposte per il teatro, a permettergli di portare a termine l’incarico e a realizzare il sogno di vederlo inaugurato, il 16 settembre del 1966 quando venne rappresentata la prima mondiale di Antony and Cleopatra di Samuel Barber, con libretto e regia di Franco Zeffirelli.

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