Oggi la Cina sta portando a galla le ferite del boom del settore edilizio che investì il paese negli anni ’90. Nel 1998 è stato liberalizzato il mercato immobiliare che ha portato con sé la crescita in maniera esponenziale e incontrollata delle proprietà private.
Qualche tempo fa ascoltando il ”Il Mondo”, il podcast di Internazionale (vi linko l’episodio in oggetto, nel caso voleste approfondire la questione (https://open.spotify.com/episode/4JkNgTCpxqwQ9sPPivbKhm?si=b70ea8fd420e4ebc) questo argomento mi ha profondamente colpita soprattutto quando ad inizio episodio viene riferito quanto segue:
“Si stima che in Cina nel biennio 2011-2012 si è consumato più cemento di quello che si è consumato in America in tutto il XX secolo.”
Un dato agghiacciante se si pensa ovviamente alla crisi ecologica che stiamo attraversando e ai “postumi” che sulla nostra stessa pelle stiamo vivendo e probabilmente continueremo a vivere.
Non solo per i numeri in sé, che comunque ci mettono sempre paura soprattutto quando non abbiamo contezza fisica delle quantità abnormi di cui si sta parlando, ma in particolare perché questo dato, che dovrebbe comprende tutto il settore edilizio, è quasi esclusivamente localizzato nell’ambito dell’immobiliare.
La Cina, come ben sappiamo, rappresenta 1/6 della popolazione mondiale, quindi, è ovvio che la richiesta sia maggiore, ma di tutti questi immobili realizzati nell’ultimo decennio la maggior parte sono sfitti o invenduti.
Deduzione: in Cina costruire case non serve, o meglio, non serve più.
Sono più di un miliardo infatti gli immobili abbandonati o non abitati e come cita il direttore dell’ufficio nazionale di statistica cinese (Fonte “Il Mondo”):
“Forse neanche 1 miliardo e 400 milioni di cinesi sono sufficienti ad abitare tutte le case sfitte costruite nell’ultimo decennio.”
E allora perché in Cina si continua ad investire su questo settore dell’edilizia?
Perché nel paese si costruiscono più case (inutilizzate) che architetture (che restituiscono invece un grande valore storico e sociale a grande scala)?
La risposta purtroppo non è in questo articolo, probabilmente non è neanche fuori da questo articolo.
Qui però voglio lanciare un piccolo sassolino nel grande oceano della speranza (e dell’edilizia) che è il progetto dello Zaishui Art Museum, a Rizhao (provincia dello Shandong): in Cina, ancora oggi, l’architettura c’è e costruisce bellezza e poetica per le generazioni future.
Accanto a chi fomenta la costruzione di ecomostri c’è un filone di pensiero che ancora si chiede come risolvere il rapporto tra edilizia e paesaggio, anzi chiamiamola con il suo nome, tra architettura e paesaggio.
Zaishui Art Museum è protagonista di questo compromesso sempre caro all’architettura che vuole costruire un equilibrio sano e di mimesi con l’ambiente attorno a cui si innesta.
Il progetto è dello studio di architettura Junya Ishigami + Associates; iniziato nel 2019 e conclusosi nel 2023, è stato dagli stessi progettisti rinominato “il gigante gentile”: Zaishui Art Museum è un museo che ospita opere d’arte ed eventi espositivi. Lungo 1 Km, ripercorre visivamente il contesto circostante contribuendo a una lettura naturale e incontaminata del luogo.
Si estende per una superficie di circa 20.000 mq coprendo visivamente quasi l’intero diametro del lago artificiale su cui è costruito. Il tema del lago è un punto chiave del progetto perché l’idea è quella di dare l’impressione che il museo nasca direttamente dallo specchio lacustre; per questo motivo, infatti, le colonne strutturali non partono dal piano di calpestio, che è posizionato a soli 10 cm dal livello del lago, ma continuano al di sotto dando appunto la percezione che le colonne stesse provengano dall’acqua.
In alto invece i pilastri circolari sostengono il tetto sinuoso e leggero che sembra quasi ricordare una vela piegarsi al primo soffio di vento. Il disegno della soletta superiore gioca con le curve del paesaggio alzandosi e abbassandosi come se fosse un profilo montuoso, mentre su alcuni punti viene sventrato e permette a chi sta attraversando il museo di non perdere mai di vista il cielo.
Se da una parte l’architettura sposa il paesaggio, lo rispetta inserendosi silenziosamente in questa simbiosi tra artificio e natura, dall’altra lo integra, si lascia attraversare e inglobare senza soluzione di continuità sia visiva che fisica.
Questo legame poetico tra un corpo architettonico, isolato e aggraziato che si inserisce nello skyline circostante e una natura selvaggia e libera di continuare a fare il suo corso (anche dentro l’edificio), fa si che il complesso venga letto come un tutt’uno sia dall’esterno che dall’interno. A tratti, infatti, il pavimento interno si lascia penetrare dal lago grazie alle vetrate che creano delle asole nella parte inferiore e lasciano l’acqua fluire liberamente: non c’è bordo né perimetro, non c’è confine tra dentro e fuori; è la perfetta osmosi tra uomo e natura.
All’interno lo spazio è ritmato dalle 300 colonne che scandiscono il percorso del lungo chilometro di sviluppo.
Più che dentro un museo, attraversando l’intero corpo ci si sente quasi in un portico dalle superfici lisce e bianche, totalmente immerso nel paesaggio e fisicamente anche nel lago.
L’archistar Junya Ishigami è stato definito dal The Guardian come “un alchimista che sembra in grado di piegare le leggi della fisica.”
Con il progetto dello Zaishui Art Museum è infatti riuscito a scardinare il concetto di architettura in Cina, un paese molto chiuso in se stesso da tantissimi punti di vista rispetto al mondo ma anche rispetto al suo sconfinato paesaggio.
Tutti gli edifici in Cina, infatti, sono dei complessi ermetici, quasi difensivi, delle vere e proprie micromuraglie incapaci di comprendere il luogo; questa paura si ripropone in tutti i campi dell’edilizia, dell’urbanistica e dell’architettura viste come elementi di distacco e impossibilitati a creare rapporti sani con “l’oltre”.
Questo complesso legame ha sempre contraddistinto il paese dando una chiave di lettura molto dura e scoraggiante di tutto l’asset organizzativo interno.
Lo Zaishui Art Museum diventa quindi emblema di una delle prime architetture paritetiche cinesi: un piccolo passo che apre le porte ad una spinta differente verso una rotta che tutti ci auspichiamo, in uno dei paesi più potenti in campo edilizio in cui ancora oggi si costruisce senza pensare alle conseguenze ecologiche, estetiche e sociali.
Photo credits: © courtesy arch-exist