Durante gli anni dell’università mi è capitato di frequentare per due anni un laboratorio di progettazione che aveva come tema l’espansione di un piccolo centro urbano a Ovest de L’Avana. Ero completamente calato in questo mondo latino-americano: i nostri insegnanti (tra cui Vittorio Garatti, che aveva lavorato con Fidel Castro negli anni successivi alla Rivoluzione cubana) ci propinavano settimanalmente una lunghissima serie di riferimenti architettonici cubani, venezuelani, brasiliani e ci parlavano di libri la cui lettura ci avrebbe fatto respirare l’aria criolla dell’isola. Non solo: il rum era diventato elemento basilare della mia piramide alimentare, ma solo di buona qualità; avevo sostituito le poche sigarette che fumavo con un unico grosso sigaro cubano che fumavo interamente la sera, spesso col mio amico Enrico, collega di università e vizi nonché anima simbiotica. Fino a quando mi sono reso conto che ci stavo spendendo decisamente troppi soldi e decisi di accontentarmi, per respirare l’aria criolla, solo della lunghissima serie di architetti propinatici e di disegnare ascoltando Compay Segundo. Vale a dire delle cose gratuite.
Tra questi progetti studiati durante il laboratorio, il SESC Pompéia a San Paolo, progettato da Lina Bo Bardi, mi aveva colpito decisamente più di tutti gli altri, per il programma funzionale, per la filosofia progettuale e per l’interazione con il contesto in cui si andava a inserire.
Lina Bo Bardi studiò architettura a Roma con Gustavo Giovannoni, importante figura per lo sviluppo del restauro conservativo, specialmente per le teorie sul rapporto tra il nuovo e l’antico che saranno evidentemente accolte anche dall’architetta nei suoi progetti. Finita la Seconda Guerra Mondiale, si sposò con Pietro Maria Bardi, curatore e critico d’arte, e si trasferì con lui in Brasile nel 1946. Qui riuscì ad avere la continuità artistica e lavorativa che non era riuscita ad avere in Italia, dove, paradossalmente, aver partecipato attivamente alla resistenza era stato un problema per la sua carriera.
L’incarico di progettare il SESC Pompéia arrivò nel 1977, dopo aver già ricevuto incarichi per la progettazione di diversi edifici di notevole importanza, tra cui il MASP, il Museo di Arte di San Paolo (di cui suo maritò sarà co-fondatore e curatore). Il SESC (Serviço Social do Comércio) era ed è un ente no-profit brasiliano creato nel 1946, che si occupa di offrire servizi di vario tipo alle persone meno abbienti, come assistenza sanitaria e spazi per attività sportive, culturali, sociali e svago. La Bo Bardi fu chiamata a operare su una vecchia fabbrica dismessa che produceva fusti metallici e che ormai era in stato di abbandono. Sebbene il tema dell’archeologia industriale e, più in generale, il recupero di un certo patrimonio edilizio risulta a noi molto familiare, non era certamente una pratica consolidata quando venne l’edificio venne progettato. Le obsolete strutture della fabbrica, realizzate in un pionieristico calcestruzzo armato secondo il brevetto del celebre François Hennebique (considerato uno degli “inventori” del calcestruzzo armato), vennero interamente conservate e, in tal senso, si può considerare l’intervento del SESC Pompéia un esempio di archeologia industriale ante litteram.
Il progetto si articolò in due fasi: la prima prevedeva l’adeguamento della vecchia fabbrica che terminò nel 1982, la seconda, invece, la costruzione di due nuovi edifici e una torre dell’acqua, completati nel 1986.
Durante la prima fase, l’edificio della fabbrica venne svuotato, lasciando solo le strutture essenziali, calcestruzzo armato e mattoni. La scelta di preservare interamente gli involucri della vecchia fabbrica non lasciava molto spazio alla realizzazione delle strutture necessarie alle attività sportive, complice la presenza di acqua di falda in una zona del lotto che ne impediva l’edificazione. La scelta progettuale fu radicale e l’architetta decise di sviluppare il progetto in altezza introducendo i due corpi in calcestruzzo armato, collegati da passerelle aeree lunghe fino a 25 metri e che permettono di superare l’area non edificabile. Questa scelta aveva anche una sua ragione urbanistica e filologica, probabilmente influenzata anche dalle idee sul restauro di Giovannoni. Con la sua dualità data dai bassi corpi della fabbrica originale e dalle alte torri di nuova realizzazione, il SESC si fonde perfettamente all’interno del quartiere, dove predominano, tra gli edifici, i corpi bassi delle fabbriche e le alte torri degli appartamenti. Se il movimento moderno concepiva progetti autosufficienti mirando ad’ unità abitative autonome, la Bo Bardi apre totalmente il SESC alla città, che lo ingloba sia funzionalmente che visivamente.
Il più grande dei due corpi in calcestruzzo armato ha, come strutture portanti verticali, solo i muri perimetrali, per cui all’interno sulle solette nervate nessun pilastro interrompe la continuità dello spazio. Le finestre, semplici aperture irregolari, sono caratterizzate dal loro colore rosso e interrompono la trama del calcestruzzo data dai casseri in legno. L’altro corpo ospita le scale, gli ascensori, gli spogliatoi e i servizi, e presenta invece delle finestre quadrate, disposte però liberamente sulla facciata.
All’esterno, un’ampia zona aperta viene usata liberamente dai cittadini, anche per prendere il sole. Nel corpo dell’ex-fabbrica, interamente arredato con elementi progettati dalla Bo Bardi, il centro ospita una mensa pubblica, una biblioteca, un laboratorio, uno spazio espositivo e un teatro. Qui, due gradinate si guardano, l’una di fronte all’altra con il palcoscenico al centro; deve essere destrutturato anche il concetto di teatro, solitamente riservato a una certa categoria di utenti, o a essa comunque a essa associato. Per la Bo Bardi l’architettura non poteva non essere socialmente impegnata e non stabilire una democrazia spaziale: né porte, né muri all’interno del SESC, dove si assiste a un esperimento socialista, come commentò l’architetta stessa, il cui successo testimonia quanto siano state acute le sue intuizioni e il suo approccio al passato.
© Nayara Cespedes