Anno 2025: Venezia è ancora qui. Resiste, ostinata, come un’opera architettonica che sfida l’erosione del tempo e delle maree. Ogni Biennale che si apre in questa città è un atto di presenza: Venezia non è un fondale, è una dichiarazione. Ma fuori da questo incantesimo fragile, il mondo è in fiamme. Le temperature globali aumentano, le popolazioni si dimezzano, la Sicilia brucia nella morsa di una siccità senza precedenti, a Sherpur e Valencia l’acqua non dà tregua; la natura ha smesso di fare da cornice, non è più lo sfondo idilliaco della narrazione antropocentrica, è la protagonista di una tragedia che ci riguarda tutti.
Eppure, proprio qui, nel cuore tremolante di una città che fluttua su fondamenta sempre più instabili, prende forma la 19. Mostra Internazionale di Architettura. Un paradosso? Forse. Ma anche una metafora perfetta. Perché questa Biennale, curata da Carlo Ratti, non si presenta con la presunzione di salvare il mondo — sarebbe ingenuo, e francamente inutile — ma con il coraggio di metterlo a nudo.

Arsenale, Venice, Italy. © Andrea Avezzù. Courtesy of Venice Architecture Biennale 2025
Gaggiandre – ©Andrea Avezzù. Courtesy of Venice Architecture Biennale 2025

Il titolo della mostra è “Intelligens. Natural. Artificial. Collective”, suona come un’ipotesi più che un’affermazione. Un manifesto incompiuto, che invita a ripensare tutto: dalle fondamenta degli edifici alla struttura dei nostri pensieri. Non ci sono risposte preconfezionate. C’è solo la domanda più difficile di tutte: come possiamo continuare a progettare mentre tutto intorno si trasforma a velocità vertiginosa?
Venezia ci osserva, silenziosa. Non è un monumento, è un organismo che ha imparato a sopravvivere. Nonostante l’acqua, nonostante il turismo, nonostante l’illusione che basti restaurare per proteggere. Forse è per questo che continua a essere il luogo giusto per chiedersi che senso abbia, oggi, parlare di architettura. Perché, se c’è una città che ha fatto della fragilità una forma di resistenza, quella è Venezia. E se l’architettura ha ancora una funzione — oltre quella estetica, oltre quella tecnica — allora forse è proprio questa: aiutarci a restare in piedi mentre tutto il resto crolla.

Arsenale, Venice, Italy. Image © Andrea Avezzù. Courtesy of Venice Architecture Biennale 2025
©Giulio Squillacciotti – Courtesy of Venice Architecture Biennale 2025

Ecco quindi che, ancora una volta l’architettura è la risposta a una crisi che ormai non si può più ignorare. Carlo Ratti lo dice chiaramente: la sfida non è più quella di mitigare i danni, ma di adattarsi, di diventare fluidi, elastici, dinamici, come il mondo che siamo costretti ad abitare. In questo, l’intelligenza, la vera risorsa, deve essere condivisa, non esclusiva, collettiva, non autoreferenziale.
“Intelligens” non è solo un gioco di parole. In latino, la parola contiene “gens”, ovvero “gente”, un concetto che Ratti utilizza per amplificare la portata di questa biennale: non basta più parlare di intelligenza umana, bensì di un’intelligenza naturale, artificiale e collettiva. Non si tratta solo di sfruttare la tecnologia per domare la natura, ma di integrarvi in modo simbiotico, di evolversi a partire da un mondo che si sta distruggendo. Una provocazione: l’architettura non è solo una risposta estetica, è un atto politico di sopravvivenza.
Il suo Manifesto di Economia Circolare è un chiaro invito a mettere in pratica modelli rigenerativi e a vivere l’architettura come un processo atto a garantire sostenibilità e adattabilità.
Questi concetti sembrano racchiudere l’essenza di una mostra che non ha la pretesa di salvare la realtà, piuttosto di esplorarne le possibilità, traendo ispirazione da un mondo naturale che si ribella, dall’artificiale che ha ormai invaso ogni spazio e dalla collettività che, forse, è l’unica chiave per affrontare le sfide globali. Il titolo della mostra si riflette nell’idea di un’architettura che non si limita a rispondere ai problemi del presente, ma che si evolve per adattarsi alle circostanze, anche attraverso il fallimento.
La mostra non si accontenta di soluzioni facili o esteticamente piacevoli: chiede al visitatore di riflettere sulla necessità di pensare l’architettura come un processo circolare, dinamico, che non si limita alla progettazione di edifici, ma alla creazione di nuovi modelli di convivenza tra l’umano, la natura e la tecnologia.
Pietrangelo Buttafuoco, presidente della mostra, apre la Biennale di Architettura 2025 con questa espressione. “Una cosa è la Terra, un’altra è il mondo.”

Carlo Ratti and Pietrangelo Buttafuoco ©Andrea Avezzù – Courtesy Venice Architecture Biennale 2025

La Terra è il fondamento naturale, indifferente, generoso ma stanco. Il mondo è la sua controparte umana, progettata, imposta, abitata. In questo “squilibrio” l’abitare è diventato campo di battaglia. Non solo metafora. A Gaza, in Birmania, in Ucraina — dove le case non esistono più, dove memoria e identità vengono spianate come fossero ostacoli — la casa non è solo rifugio, ma bersaglio. Distruggere un’abitazione, una scuola, una biblioteca non è solo strategia militare, è cancellazione simbolica, è rifiuto del diritto a esistere come comunità.
La Biennale offre dunque una riflessione intensa su come la progettazione architettonica possa rispondere alle sfide globali, ma lo fa mettendo in discussione ciò che sappiamo. In ogni padiglione, nazionale e ospite, si intravede l’idea di un futuro in cui l’architettura non è più solo un atto di costruzione, ma di relazione.
Il Padiglione della Germania, STRESSTEST, è una denuncia delle problematiche legate al surriscaldamento globale analizzando quanto architettura e urbanistica possano contribuire a creare soluzioni di adattabilità.

Thermal image Munich 2024 – ©STRESSTEST_GustavGoetze

Dal canto suo, il Padiglione dell’Islanda, Lavaforming affronta il tema dell’uso delle risorse naturali (come la lava) come sfida creativa per soluzioni architettoniche non distruttive.

Arnhildur-2125 ©aldis palsdottir

Tra i padiglioni nazionali, spicca quello dell’Italia, curato da Guendalina Salimei: TERRÆ AQUÆ. L’Italia e l’intelligenza del mare è una riflessione liquida sulla nostra identità, sulla capacità adattiva che l’elemento acquatico incarna. È un padiglione che ci interroga, senza retorica, su come l’architettura possa imparare dal mare: non solo come metafora, ma come materia viva, che plasma territori, culture, approcci progettuali. In un tempo di maree impazzite e coste divorate, l’Italia guarda al Mediterraneo non come culla nostalgica, ma come laboratorio di resilienza.
Il Padiglione Nordico, casa comune di Svezia, Norvegia e Finlandia, torna alla Biennale con Industry Muscle. Simbolo vivente del modernismo architettonico, la mostra interroga l’ambiente costruito come riflesso delle norme sociopolitiche ereditate da una cultura fondata sui combustibili fossili, ponendo il corpo transgender come lente attraverso cui leggere e scardinare le rigidità dell’architettura moderna. Un progetto che non ha paura di mettere in discussione le fondamenta fisiche, culturali e simboliche.

©Venla Helenius

Il Padiglione dell’Ucraina, Vernacular Hardcore esplora il concetto di tetto come forma archetipa dell’abitare declinandolo nell’importanza della ricostruzione durante le attuali crisi belliche.
Il Padiglione portoghese, PARAÍSO, HOJE, propone un viaggio visivo e partecipativo che cerca di offrire una lettura più ottimista del nostro tempo. Attraverso un’installazione interattiva, si invitano i visitatori a guardare il nostro “mondo in fiamme” da un’altra prospettiva: nonostante tutto, viviamo in un’epoca che, per molti aspetti, resta la migliore che l’umanità abbia mai conosciuto.
Le parole di Ratti, che parlano di “intelligenza collettiva” come chiave per affrontare le sfide, risuonano come una chiamata all’azione. Non si tratta solo di una riflessione sulla tecnologia e sull’intelligenza artificiale applicata all’architettura, ma di un invito a superare l’idea che la risposta debba venire da un unico individuo o da un’unica nazione. Piuttosto l’architettura del futuro deve essere collettiva, un processo che coinvolge tutti, che impara dagli errori, che cresce attraverso la sperimentazione.
La Biennale di Architettura 2025, dunque, non è un evento che fornisce soluzioni definitive, ma una piattaforma che raccoglie proposte coraggiose, talvolta provvisorie, che si confrontano con la realtà di un mondo che cambia e che sta soffocando. Ogni progetto, ogni padiglione è un frammento di un puzzle più grande, una visione che può sembrare lontana, ma che è necessaria per gettare le basi di un futuro più sostenibile. Se questa edizione della Biennale farà il suo lavoro, non offrirà risposte facili, ma la possibilità di immaginare e sperimentare nuove vie. E forse, proprio da questi tentativi di fallire, potremo imparare qualcosa di veramente utile per il nostro domani.

Circularity on the edge –  Kateryna Lopatiuk, Herman Mitish, Yana Buchatska, Orest Yaremchuk, Oleksandr Sirous, Roman Puchko. Image Courtesy Venice Architecture Biennale 2025
Construction futures Co- Poiesis – Philip Yuan, Image Courtesy Venice Architecture Biennale 2025
Elephant Chapel – Boonserm  Premthada Image Courtesy Venice Architecture Biennale 2025
Manameh Pavilion – Alia  Al Mur, Yusaku Imamura, Ahmed Shabib, Rashid Shabib, Jonathan Shannon, Vladimir Yavachev, Image Courtesy Venice Architecture Biennale 2025

Da architetta, guardo alla Biennale non solo come a un’esposizione di idee, ma come a un osservatorio critico sulle trasformazioni dello spazio contemporaneo. Ogni padiglione è una dichiarazione progettuale che rivela urgenze sociali, tensioni ecosistemiche, nuove estetiche, ogni padiglione è un grido di aiuto verso la forma più libera dell’abitare.
Forse, allora, è davvero nell’effimero che si nasconde la forza più sovversiva dell’architettura
Le Città invisibili di Calvino mi tornano sempre alla mente: luoghi immaginari che contengono desideri, inquietudini, utopie urbane. I padiglioni si pongono allo stesso modo, come allegorie spaziali che raccontano città future, forse irrealizzabili, ma necessarie da pensare. Non devono durare, devono farci riflettere.
E mentre l’architettura costruita spesso rincorre la monumentalità o l’efficienza, quella effimera — come insegnano anche Lacaton & Vassal — può permettersi il dubbio, la fragilità, il pensiero critico. Se la demolizione è una forma di violenza, forse è proprio la temporaneità consapevole a diventare un gesto sovversivo: costruire per smontare idee, schemi, abitudini.
Forse è davvero così: nell’effimero risiede la forza più radicale dell’architettura. Perché nel poco tempo che ha, può permettersi di essere tutto ciò che quella permanente non osa, o non sa.

Cover Photo credits ©Francesco Galli


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