Ho sempre pensato che il design (così come l’architettura, l’urbanistica e tutto il fantastico mare in cui mi sono voluta, senza braccioli, immergere quando ho scelto di intraprendere la mia strada) non fosse mai fine a sé stesso.
Sin da subito l’ho interpretato come un’onda capace di avvolgere in toto il mondo dell’arte e della creatività a 360 gradi riuscendo, con differenti linee guida, ad arrivare sempre a chiunque e ovunque.
Penso che, come un film, abbia diversi livelli di lettura, diverse scale di gradiente per poter essere meglio assorbito in tutti i suoi ventagli di possibilità, per l’appunto, da chiunque voglia fruirne.
Abbiamo un fatto, recente e indiscusso che prova con assoluta concretezza che oggi il design in tutte le sue forme è arrivato dentro le vite di tutti, anche di chi non lo fa per professione: questo fatto ha un nome e si chiama Milano Design Week.
Lo abbiamo toccato con mano (il design) per una settimana scorrere fluente attorno a noi; abbiamo osservato per 7 giorni la gente uscire di casa, affrontare le lunghe e incessanti piogge torrenziali milanesi; abbiamo visto il design trasformarsi, piegarsi per spiegarsi anche ai più piccini, semplificarsi per la media e contorcersi per i veri professionisti appassionati.
Questo è ciò che è successo in superficie. Ciò che invece succede, oltre quella settimana, ogni giorno attorno e dentro le case di tutti, dentro i pensieri di tutti è indubbio: oggi chiunque ha sviluppato un senso più o meno critico nei confronti del design, sopratutto se si parla di interior.
l livello si sta alzando (forse?) e la gente cerca di assorbire sempre più input e immagini che si fanno (si spera) più belle e sempre più “pretendenti”.
Se in superficie, a galla nelle nostre vite, dentro le nostre case ma anche fuori, nella nostra città succede questo o meglio il design è arrivato a tanto, cosa sta succedendo invece dentro?
Dove? Lì, nella nostra testa, in quel luogo dove si bloccano le fuoriuscite della vetrina e della maschera che indossiamo quotidianamente e rimaniamo noi, solo noi e la nostra psiche.
E se vi dicessi che anche lì, nei meandri più reconditi della mente umana, il design si è fatto strada e ha fatto capolino senza neanche bussare?
Uno su tutti c’è riuscito e se non volete farlo entrare basta non guardare i suoi film (scherzo, guardateli tutti): è un regista; torno, stranamente, a parlare di un connubio fortissimo tra cinema e design con il supremo e visionario maestro dell’inconscio, David Lynch.

Fresco di nomea ha, proprio in quella fatidica settimana del mobile, portato in scena a Rho fiera una installazione chiamata “Interiors by David Lynch. A Thinking Room” a cura di Antonio Monda e realizzata dallo studio Lombardini22.  “A Thinking Room”, sono due stanze del pensiero (che fanno il verso a “The Inland Empire”, l’impero della mente, il celeberrimo film dello stesso regista), due allestimenti gemelli avvolti e nascosti da uno scenografico velluto rosso all’esterno (troppo facile ricordare i suoi tessuti rossi di Twin Peaks come simbolo di un’arte figurativa che riecheggia oscenità,  scenografie noir e trame dai contorni enigmatici e soprannaturali) e blu all’interno (fa da quinta psichica un altro film di David Lynch, “Blue Velvet”).

© Monica Spezia

L’installazione riflette sulla concezione contemporanea degli interni e del filo rosso che lega le scelte apparenti e quelle inconsce di chi vive e arreda il proprio spazio come proiezione esteriore di sé stesso.
Non è la prima volta che il regista si cimenta a rompere la parete cinematografica e arrivare a progettare concretamente i suoi spazi; un ossimoro quello di realizzare nella vita reale e concreta ciò che paradossalmente è solo immagine labile e fittizia nei suoi film dove gli interni sono una proiezione psichica del protagonista.
“Tutto è possibile, tutto è finzione al Club Silencio, Betty Elms trema e sa che niente è mai come sembra, solo il mistero avrà le risposte alle sue domande.”

Ebbene sì, quel Club Silencio che ha contribuito a rendere il lynchano “Mulholland Drive”  il miglior film degli anni “zero” esiste, si trova a Parigi in Rue Montmartre ed è stato coniato a immagine e somiglianza dalla pellicola: labirintico, misterioso e contorto è un bar/ristorante parigino esclusivo ideato dallo stesso David Lynch nel 2011 che per la prima volta  ha deciso di dare sfogo alle sue fantasie (o a quelle dei suoi personaggi, per meglio dire) enigmatiche e oniriche dando vita quasi ad un vero e proprio brand.

© Alexandre Guirkinger

Infatti, Club Silencio oggi si reitera a New York con Silencio NYC, progetto di Harry Nuriev e Crosby Studio.
Gli interni sono avvolti da un velluto rosso (costante marchio di fabbrica di Lynch) regalando un’estetica misteriosa, conturbante e scenica.
Alterna i contrastanti frame dorati e i led taglienti e minimali con le teatrali tende rosse protagoniste di uno spettacolo estremamente ammaliante e seducente.
Ci si ritrova in questo labirintico palcoscenico di un film lynchano, dove ci si muove tra gli spazi, come stanze della mente.
Man mano che si percorrono i corridoi misteriosi ogni stanza si scopre dietro le pesanti tende in velluto che sembrano rappresentare il varco, quella soglia labile e sfocata tra il sogno e la realtà.

Il design e gli interni scenografici e ricchi di simbolismo onirico servono a Lynch per entrare, a passo svelto, negli anfratti labirintici della nostra mente; il regista ci mostra attraverso colori, tessuti e arredi (scelti appositamente per scardinare la visione realistica del mondo) ciò che cerchiamo di nascondere sempre più in profondità nel nostro inconscio: dissotterra dalla nostra psiche immagini distorte per portare a galla la vera anima di un IO irrazionale che vive dentro ognuno di noi.

Ripescando il filo rosso che dall’incipit del mio articolo, preso più a larga scala, ci ha portato a sviscerare il design come forma onirica e proiezione misteriosa, paradossale della nostra psiche, mi piace ritornare a quel calderone che avevo presentato: il design come forma d’arte dove per arte si intende anche il cinema e, soprattutto, il cinema di David Lynch, il cinema come forma d’arte, il cinema come quadro: «I miei film sono quadri filmati, ritratti in movimento imprigionati su celluloide.» [David Lynch]

Cover photo credits © DR