Ci sono invenzioni che hanno cambiato radicalmente la vita degli esseri umani. Quella del calcestruzzo armato è stata sicuramente una di queste. Dagli esperimenti pionieristici dell’800 la felice unione di questi due materiali così diversi, il conglomerato cementizio e l’acciaio, si rinnova continuamente ogni volta che la miscela si lega abbracciata alle barre d’acciaio dopo la gettata. Mia madre (era da un po’ che non la citavo nei miei articoli) penserebbe che sono il solito fricchettone con le idee strane. Il “cemento armato” (espressione impropria che uso proprio in quanto tale) è spesso l’emblema di tutt’altro: dell’abusivismo di una certa epoca, delle case tutte uguali, della cementificazione, per l’appunto. Ma, insomma, povero cemento! Non è mica colpa sua se è stato coinvolto in uno sviluppo edilizio incontrollato. E così come la parola verde (o green) si carica di significati positivi, la parola cemento soffre il fardello di ciò che rappresenta. Ma oltre ad aver cambiato la vita delle persone utilizzato in coppia con l’acciaio, il cemento è un materiale a cui gli architetti hanno dato anche un valore estetico di altissimo livello lasciandolo a vista, cioè brut per dirlo alla francese. Proprio da brut deriva la parola brutalismo, che descrive la corrente architettonica caratterizzata dal béton brut. Povero cemento: anche la parola brutalismo, non ci ricorda nulla di piacevole e la prima associazione è quella con l’aggettivo brutale. Dedicherò il prossimo ciclo di articoli proprio a questi edifici brutalisti in cui il cemento non viene utilizzato solo per scopi strutturali ma anche come elemento estetico lasciato a vista e sfruttato per le sue caratteristiche plastiche e per il suo essere così scultoreo.

© Reyner Banham – the new brutalism

Non potevo che iniziare con un edificio nella periferia sud ovest milanese dalla storia molto particolare legata alla sua funzione. Nel quartiere di Baggio si trova quella che fu la sede dell’Istituto Marchiondi Spagliardi, un edificio che, appena completato nel ’57, venne acclamato dalla critica italiana e internazionale ma che ora versa in uno stato di profondo abbandono. Come spesso succede, la storia ha un corso tortuoso e le contingenze creano delle anse imprevedibili. L’Opera Pia Istituti Riuniti Marchiondi Spagliardi e Protezione dei Fanciulli già nell’800 si occupava di educare i ragazzi provenienti da ambienti difficili e aveva la propria sede nel centro città in via Quadronno. A seguito dei danni causati dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale fu indetto un concorso a inviti per la progettazione della nuova sede e successivamente vinto da Vittoriano Viganò, architetto milanese formatosi nel vivace ambiente culturale della città. La sua attenzione agli aspetti sociali dell’architettura è stata alla base del progetto vincitore che venne scelto proprio per il moderno atteggiamento nei confronti dei ragazzi tramite un’architettura priva di recinti invalicabili e che puntava a rinnovare il rapporto tra educatori e educandi, abbandonando l’impianto quasi carcerario delle analoghe strutture coeve. Per Viganò, il progettista poteva e doveva avere un ruolo importante nella costruzione della neonata democrazia italiana.

Fu fondamentale per la progettazione definitiva la presenza nel gruppo dello psichiatra Angelo Donelli, figura di spicco nel mondo educativo italiano, insignito nel 2003 dell’ambrogino d’oro dalla città di Milano. L’edificio è organizzato su un asse di distribuzione est-ovest che porta alle aule a sud e al convitto a nord con una particolare attenzione all’irraggiamento. Fin dal progetto preliminare era evidente come fosse presente anche uno studio del verde legato anch’esso a questioni di esposizione solare per creare zone confortevoli e ombreggiate all’aperto.

L’apertura dell’edificio è una questione centrale nel progetto di Viganò. Il soggiorno collettivo, il rapporto tra interno ed esterno con le ampie vetrate (quasi si rifacesse all’École en plein air di Suresnes) e la chiesa mai realizzata che avrebbe dovuto essere il punto di raccordo tra cittadini e ragazzi dell’istituto sancivano che nulla doveva essere autoriferito e claustrofobico. Anche il trattamento delle camerate è stato emblematico. Le due camerate da dodici potevano essere sorvegliate dall’alto, senza necessità di camminare tra i letti delle stanze grazie a due corridoi sopraelevati a cui si accedeva tramite due scale alla leonardesca. Queste ultime donano un certo lirismo e un’eleganza leggera all’ambiente insieme ai colori pastello dei muri di cui oggi resta solo qualche traccia. Le stanze sono divise da due muri che non arrivano al soffitto, anche in questo caso in un’ottica di apertura che doveva stimolare i ragazzi a costruire relazioni nel rispetto delle regole di convivenza. Tutti questi aspetti sociali sono tenuti insieme da un solido impianto razionale definito da una grande chiarezza strutturale. Gli elementi trilitici emergono visivamente e nella zona esterna quasi appaiono come torii giapponesi, conferendogli un’aura di sacralità. Elementi modulari sono chiaramente riconoscibili nel prospetto come i cubetti che contengono i blocchi con i servizi.

Il Marchiondi viene abbandonato negli anni ’80 quando si cominciò a percepire che di lì a poco la gestione di quel genere di istituti sarebbe diventata di competenza regionale. Dopo una serie di occupazioni abusive e sgomberi, nel 2008 la sovrintendenza applica il vincolo monumentale, un gesto che avrebbe potuto (e forse potrà ancora) essere il primo passo verso il recupero di questo patrimonio architettonico ma che di fatto si è rivelato essere nient’altro che zavorra per un edificio già estremamente compromesso a causa della mancata manutenzione. Nel 2009 una concessione trentennale al Politecnico di Milano avrebbe dovuto costituire il secondo gradino per il recupero edilizio, ma i costi eccessivi, insostenibili per l’Ateneo, hanno bloccato tutta l’operazione. Notizie diffuse in occasione dell’eccezionale riapertura dell’Istituto durante la scorsa Design Week hanno lasciato intendere che forse qualcosa potrà essere fatta grazie ai fondi del PNRR, destinati a uno studentato universitario. Questa rifunzionalizzazione era stata già ipotizzata dal Dipartimento di Progettazione in occasione della concessione ricevuta dal Comune, ma dovremo ancora aspettare per saperne di più. Per il momento l’istituto continuerà a sembrare uno di quei luoghi sacri del centro America o dell’Asia, ricoperto di una fitta vegetazione che lo fa sembrare ancor di più una rovina archeologica.